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"Il maggiore generale Ihab Abdel Rahmnan, assistente ministeriale presso l’autorità dello stato civile, ha proibito il riconoscimento delle organizzazioni sindacali indipendenti nelle strutture ufficiali egiziane. Questo divieto significa che i sindacati indipendenti non possono produrre o pubblicare nessun tipo di documento ufficiale contrassegnato dal loro simbolo. Significa anche che non ci sarà possibilità di contrattazione per queste organizzazioni e che i loro dirigenti saranno esposti al rischio di essere licenziati ingiustamente, di essere arrestati e imprigionati, con conseguenze gravi per le condizioni di vita delle loro famiglie”. Questa denuncia del Gruppo dei lavoratori dell’Ilo (composto di 14 membri, che – assieme a 28 rappresentanti dei governi e 14 degli imprenditori – fanno parte del consiglio di amministrazione dell’organismo internazionale) risale allo scorso 24 marzo.
Sullo stesso argomento è intervenuto proprio in questi giorni il direttore generale dell’Ilo Guy Ryder, ricordando che la decisione del governo egiziano rappresenta una palese violazione delle Convenzioni 87 e 98 dello stesso Ilo (dal paese nordafricano ratificate), oltre a contraddire l’articolo 76 della Costituzione egiziana del 2014, che stabilisce il diritto di istituire organizzazioni sindacali su basi democratiche e di esercitare liberamente l’attività di tutela dei diritti dei lavoratori. Nulla di nuovo, peraltro. La politica del pugno di ferro del regime di Al-Sisi contro i sindacati si è accentuata da un anno a questa parte, ma vanta illustri precedenti. Il regime di Mubarak non vedeva certo di buon occhio le prime espressioni di democrazia diretta che fecero la loro comparsa in Egitto nel 2006 e, soprattutto, nel 2008.
In quell’anno la fabbrica tessile di Mahalla al-Kubra, nel Delta del Nilo, dove lavoravano oltre 20mila operai tra uomini e donne, fu teatro di un grande sciopero. Da lì prese il via il movimento “Sei Aprile”, fondato su Facebook da Ahmad Maher, uno dei promotori della manifestazione del 25 gennaio 2011 a piazza Tahrir, che segnò l’inizio della fine del regime di Mubarak. A partire da allora le vicende egiziane sono state segnate da una serie quasi ininterrotta di scioperi e manifestazioni, con conseguenti e spesso sanguinose repressioni da parte dei successivi governi, da quello di Morsi a quello di Al-Sisi, segnalando una profonda insofferenza nei confronti delle mobilitazioni popolari. Fino a quando, il 28 aprile 2015, una sentenza dell’Alta Corte amministrativa ha reso illegale lo sciopero e costretto al pensionamento forzato i lavoratori condannati con questa accusa. Il 2 giugno dello stesso anno i militari aprivano il fuoco su un sit-in di operai a el-Arish, nel Sinai, uccidendo un lavoratore e ferendone altri tre.
Nonostante il clima tutt’altro che favorevole, a cui fa da sfondo un quadro giuridico che ostacola l’auto organizzazione dei lavoratori e la formazione di nuovi sindacati, tra il 2012 e il 2013 hanno visto la luce due nuove organizzazioni sindacali indipendenti, l’Egyptian independent federation of trade unions (Efitu), riconosciuta dalla Confederazione internazionale dei sindacati, e l’Egyptian democratic labour congress (Edlc), unione di federazioni e di sindacati nati dopo la caduta di Mubarak. Le due nuove organizzazioni, ancora segnate da una forte impronta personalistica, contestano la legittimità e il potere del sindacato ufficiale, l’Egyptian trade union federation (Etuf), allineato prima al regime di Mubarak e poi a quello dei Fratelli Musulmani, l’iscrizione al quale ha da sempre – per tradizione – garantito il mantenimento di alcuni privilegi, in un contesto dominato da relazioni industriali di tipo primordiale e da una pressoché totale arbitrarietà dei datori di lavoro, sia di origine locale, sia emanazione di grandi multinazionali.
Oggi in Egitto la forza lavoro assomma a circa 27 milioni di persone, su una popolazione di oltre 80 milioni. La disoccupazione giovanile è endemica (24,8 per cento, con punte fino al 54 per cento per le donne, secondo i dati ufficiali) e le crescenti difficoltà economiche del Paese hanno accentuato il peso dell’economia informale. Non a caso Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo, aveva concentrato le sue ricerche sul sindacato dei lavoratori ambulanti, che costituiscono la cartina di tornasole del mercato del lavoro egiziano. Come dice Hoda Kamel, attivista dell’Egyptian center for economic and social rights, intervistata da la Repubblica lo scorso 12 marzo, indagare sulla volontà di creare un vero sindacato in questo settore significa entrare in un terreno minato. Per svolgere il loro lavoro gli ambulanti, che furono utilizzati dal regime per attaccare i manifestanti durante la rivoluzione di piazza Tahrir, devono sottostare al controllo della polizia. Per questa ragione sono facilmente infiltrabili e disponibili a svolgere il ruolo di informatori per la stessa polizia e per i servizi segreti.
Le vicende sindacali sono dunque indicative, ancora prima del caso Regeni, della direzione intrapresa dal regime egiziano in senso autoritario e antidemocratico. Di recente, il governo del Cairo ha deciso di eliminare la tassa sui redditi milionari e di abbassare l’aliquota massima della tassazione al 22,5 per cento. Una misura che la dice lunga sulle scelte operate da un esecutivo che cerca legittimità sul fronte interno nel segno della conservazione e dell’autoritarismo, mentre su quello esterno è impegnato a recuperare un ruolo di primo piano nell’inquieto scenario medio orientale, a scapito dei rapporti con l’Occidente e sempre più in sintonia con l’Arabia saudita. Una deriva densa di incognite e di pericoli.