PHOTO
Anno nuovo, ma vecchia vita. Sebbene sia l’ultima manovra del Governo Gentiloni e di questo Parlamento, sciolto a fine 2017 in vista delle elezioni politiche del prossimo 4 marzo, la legge di Bilancio 2018 varata il 23 dicembre al Senato (con 140 voti favorevoli e ben 94 contrari) non assume tratti particolarmente propagandistici e, dunque, espansivi come ci si sarebbe potuti aspettare.
In realtà, sin dalla Nota di aggiornamento del Def 2017 di settembre erano noti il segno e l’entità della manovra economico-finanziaria per il triennio 2018-2020. In estrema coerenza con le leggi di stabilità e Bilancio precedenti, come rivendicato da subito dal ministro dell’Economia, la legge di Bilancio 2018 (assieme al cosiddetto decreto fiscale che garantisce buona parte delle coperture) resta nel “sentiero stretto” dell’austerità, seppur dilazionata, e della politica di svalutazione competitiva. Anche questa legge rinvia il famigerato pareggio di bilancio (deficit strutturale intorno allo 0,5), continuando però a generare avanzi primari sempre più ampi, ossia nuovi tagli della spesa e ricomposizioni inique delle entrate, tali da deprimere la domanda aggregata e la stessa crescita potenziale su cui si basa l’aggiustamento dei conti pubblici.
L’Italia continua ad avere l’avanzo primario più alto d’Europa (dall’1,7 del 2017 al 3,5 per cento del 2020). In termini di entrate ciò equivale a una riduzione netta di circa 9,4 miliardi di euro per quest’anno (4,8 miliardi nel 2019 e addirittura un incremento del gettito per 1,5 miliardi nel 2020). Stavolta almeno le maggiori entrate sembrano derivare principalmente dalla lotta all’evasione fiscale e dalla web tax. A queste corrispondono incrementi netti delle spese inconsistenti, pari a 1,6 miliardi, poco più dei tagli strutturali previsti. Tecnicamente nel 2018 da un livello di indebitamento netto della Pa pari all’1 per cento del Pil in termini tendenziali (cioè senza interventi, prima della manovra) è stato fissato, d’accordo con la Commissione europea, il nuovo obiettivo di 1,6 punti di deficit (anziché 1,2 per cento come previsto ad aprile).
Tuttavia, il margine espansivo continua a contrarsi, visto che nel 2017 il deficit era del 2,1 per cento, mezzo punto in più per l'economia reale. E non dimentichiamo che il vincolo europeo di deficit spending è del 3 per cento, come ben ricordano altri paesi europei quali la Francia, la Spagna e il Regno Unito nelle proprie leggi di bilancio 2018. In poche parole, si tratta di una manovra “cauta”, che non rilancia l’economia e l’occupazione del nostro Paese. Una manovra che non affronta il tema centrale dell’aumento delle diseguaglianze e dell’indebolimento generalizzato del lavoro. Una manovra di desistenza.
Nonostante il ciclo economico internazionale temporaneamente positivo abbia portato nel nostro Paese una crescita superiore alle aspettative di inizio anno – anche se visibilmente inferiore a quella delle altre economie industrializzate, europee e non solo – i nuovi decimali di Pil (da 1,2 a 1,5 per cento nel 2017, che dovrebbero “trascinare” la stessa cifra nel 2018) e di possibile stimolo dell’economia pubblica non vengono utilizzati. La prima dimostrazione è data dalla cosiddetta clausola di salvaguardia che pende sull’aumento dell’Iva, scongiurato anche quest’anno con 15,7 miliardi di euro su un totale di 28 miliardi di manovra complessiva.
Malgrado la distanza dal livello del 2007 degli investimenti nell’economia reale sia ormai pari al 30 per cento, il Governo pianifica per il triennio un contenimento degli investimenti pubblici e istituisce un fondo per le infrastrutture con sole cifre nominali che – guarda caso – valgono dal 2019 al 2033. Si pone molta enfasi sul “Piano nazionale Impresa 4.0”, ma le poche risorse a supporto (appena 1,2 punti di Pil in 5 anni per prorogare gli incentivi, tra cui iperammortamento e nuova Sabatini, a cui si aggiunge un credito d'imposta del 40 per cento per la formazione digitale) confermano una linea troppo liberista che presta attenzione solo alle poche imprese che hanno resistito alla crisi innovando processi e prodotti (non oltre il 20 per cento dell’intero sistema privato).
Restano così lontanissimi dai già modesti livelli pre-crisi sia il tasso di disoccupazione, sia i redditi da lavoro, che il Governo programma di contenere ulteriormente anche nel prossimo futuro delineato dal quadro macroeconomico programmatico 2018-2020. In pratica si scommette solo sugli investimenti delle imprese, a partire da quelle che esportano, ignorando completamente gli squilibri sistemici dell’economia globale e le debolezze strutturali del nostro sistema produttivo. Ogni onesto analista economico vede segnali dal futuro dell’Europa e, in generale, del contesto globale poco rassicuranti.
Se nei saldi e dal punto di vista macroeconomico appare chiarissima la politica economica perseguita, osservando i singoli provvedimenti della manovra si alternano segni opposti. Certo, molti dei 1.247 commi – dovuti al maxiemendamento e all’ennesimo voto di fiducia – descrivono la frenetica ricerca di consenso nei confronti di interessi molto specifici o localizzati da parte delle forze politiche presenti nell’emiciclo piuttosto che dei singoli parlamentari. Le modifiche apportate dalla prima lettura alla versione finale si traducono in appena 541 milioni di impieghi aggiuntivi (maggiori spese e minori entrate) contro 561 di risorse a copertura, per un effetto addirittura positivo sul deficit di 20 milioni di euro.
I “ritocchi” al sistema pensionistico hanno catturato buona parte del dibattito sindacale, pur avendo il Governo disatteso gli impegni presi la scorsa estate, soprattutto sui giovani, a cui peraltro gli annunci anticipavano la dedizione dell’intera manovra. Da questo punto di vista, invece, la misura più significativa resta la proroga e la revisione degli incentivi alle assunzioni (sgravio contributivo del 50 per cento per i primi tre anni di contratto a tutele crescenti, valido per gli under 35 nel 2018 e per gli under 30 a decorrere dal 2019, che sale al 100 per cento per il Sud), che già hanno dimostrato la loro scarsa efficacia e le loro contraddizioni. In effetti, la politica economica e industriale del Governo, così come la legge di Bilancio, sono tutte basate su proroghe, incentivi e bonus (casa, figli, eco, sisma, cultura, ecc.). Anche la maggiore attenzione al Mezzogiorno si traduce in proroga e aumento degli incentivi alle imprese.
Appaiono più interessanti le disposizioni a favore delle zone terremotate del Centro Italia e i meccanismi di accelerazione della spesa contro il dissesto idrogeologico. Il sostegno al riequilibrio di bilancio di Regioni ed enti locali è cresciuto al passo con l’iter parlamentare della legge. Per le pubbliche amministrazioni, senza dubbio, il risultato più importante riguarda il rinnovo del contratto nazionale, dopo otto anni di blocco, rifinanziato con 2,8 miliardi per un aumento medio a regime di 85 euro (ritoccando anche il famoso bonus Irpef di 80 euro per evitare che gli aumenti causino l'esclusione automatica di alcuni lavoratori). Per scuola e università, inoltre, arrivano fondi per la stabilizzazione dei docenti e del personale amministrativo.
Di sicuro, però, il welfare non rappresenta una direttrice di investimento: si riduce di fatto il Fondo per il sistema sanitario nazionale e aumentano marginalmente le risorse dedicate al contrasto della povertà attraverso il Reddito di inclusione (Rei). Ricordiamo che uno dei temi politici più dibattuti al Senato ha riguardato il superticket per le prestazioni di assistenza specialistica, esentate solo parzialmente per le categorie più deboli.
Eppure, la stragrande maggioranza dei canali di propaganda mediatica continua a sottolineare il cambio di segno della legislatura, a partire dal Pil e dall’occupazione, ignorando completamente la distanza dai livelli “normali” di crescita e, ancor più grave, dai livelli potenziali di sviluppo e occupazione, ampissimi nel nostro Paese proprio per l’elevata inattività e l’eccessiva sottoccupazione, soprattutto giovanile e femminile. Il meglio è nemico del bene. Basta volgere lo sguardo agli andamenti delle altre economie avanzate che compongono i vertici “G” e dove la nostra posizione è sempre più periferica. A un cambio di segno dell’economia non ha corrisposto un cambio di passo. Senza contare la forza di lavoro potenziale, rispetto al 2008 mancano oltre 1 milione e 200 mila unità di lavoro (equivalenti a posti di lavoro a tempo pieno). Il bicchiere non è mezzo pieno, non siamo nemmeno a metà. Inoltre, la forte incidenza dei contratti a termine e, in generale, delle forme di impiego precarie tra i nuovi occupati dell’ultimo triennio indica un problema nella qualità del lavoro creato, oltre che un basso livello di redditi e di consumi, soprattutto per le nuove generazioni.
Non a caso nel dibattito parlamentare gli avanzamenti in tema di ammortizzatori sociali, politiche attive e tutele del lavoro sono insufficienti e sono stati persino ritirati gli emendamenti – benché avessero largo consenso parlamentare – che avrebbero limitato l'uso dei contratti a termine e migliorato i diritti dei lavoratori a tutele crescenti.
Con quest’ultima legge di Bilancio, dunque, si può tracciare un bilancio dell’intera legislatura. I Governi Letta-Renzi-Gentiloni, oggi come 5 anni fa, hanno dimostrato più attenzione agli interessi costituiti, ossia alla finanza e al mercato, gli stessi celati dietro la tecnocrazia europea. Allo stesso modo, le principali misure e le più imponenti riforme strutturali – tra cui spiccano quelle del mercato del lavoro e del sistema previdenziale, della Pa e della scuola – sono state caratterizzate da un netto sbilanciamento in favore del mondo delle imprese e, di conseguenza, per l’assenza di confronto con le organizzazioni sindacali.
L’occasionalità del cosiddetto dialogo sociale – tanto raccomandato dalle istituzioni europee – anche nell'ambito del semestre europeo, di cui il Def e la legge di Bilancio fanno parte, si riflette anche nel mancato confronto sulle manovre di fine anno, a cui resta solo la formalità delle audizioni preliminari in Parlamento. Non c’è da stupirsi. Una politica economica equa ed espansiva richiede deliberazione collettiva, confronto e monitoraggio. Un metodo ben scandito anche nel Piano del Lavoro della Cgil. Chissà se il prossimo Governo farà meglio o farà bene.
Riccardo Sanna è capo area Politiche di sviluppo della Cgil nazionale