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Bruno Ugolini, giornalista, storico cronista del quotidiano “l’Unità”, è autore di un volume, “Vite ballerine. Prima e dopo il Jobs Act” (Ediesse, pp. 259, 13 euro), approdato proprio in questi giorni in libreria
Che fine avranno fatto Paolo, Federico, Marianna, Antonella, Sissi, Maristella, Sofia, i tanti giovani atipici e precari che ho incontrato in quindici anni come autore di una rubrica a loro dedicata, ogni lunedì, sul giornale l’Unità, dal 2001 al 2015? Sono i veri protagonisti di questo libro, che ho costruito operando una cernita fra le centinaia di puntate. Forse alcuni avranno trovato una collocazione, sia pure non garantita “per sempre”, nell’ambito del Jobs Act. La stragrande maggioranza di loro e di quelli che a loro sono succeduti immaginiamo che siano alle prese con un paese che “decresce” e con la difficoltà di essere collocati in un lavoro davvero stabile e, comunque, con la possibilità di essere tutelati dalle malattie, dagli infortuni, dal cambio repentino e irragionevole di qualifica, da prospettive pensionistiche pauperistiche, da licenziamenti non seriamente motivati.
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Non è stata fatta miracolosamente piazza pulita del grande problema di una frammentazione del mondo del lavoro con la frammentazione di diritti e tutele. Non è iniziata l’epoca nuova di un lavoro stabilizzato, dove magari il posto fisso non è una certezza, ma rimane la certezza di non rimanere soli e abbandonati, senza diritti e senza tutele. I collaboratori, anche quelli a progetto, le partite Iva, gli stagisti senza paga e senza formazione, non sono spariti. Anzi, le partite Iva sono aumentate, così come è aumentato il lavoro “grigio” attraverso i voucher. Secondo l’Inps i voucher per il pagamento del lavoro occupazionale registrano, nei primi undici mesi del 2015, la vendita di 102,4 milioni di buoni da 10 euro, il 67,5% in più rispetto al corrispondente periodo del 2014.
Trattasi di un esercito di persone, in maggioranza giovani, costretti a lavori occasionali. Questa non è certo la “buona flessibilità”. Nello stesso tempo il Jobs Act ha continuato l’opera di correzione di alcuni diritti presenti nello Statuto dei lavoratori (sui licenziamenti, ma anche sui controlli a distanza e sul cosiddetto demansionamento). Per cui nei luoghi di lavoro rimarrà una dualità tra chi ha tutte le tutele del passato e chi no. I giudizi sul Jobs Act non sono però omogenei. Nel libro troviamo, accanto alle analisi di Susanna Camusso e Serena Sorrentino, quelle di Claudio Treves (segretario del Nidil Cgil), di Loredana Taddei (Politiche di genere Cgil), di Marco Di Girolamo (segretario della Fillea Lombardia), di Carmelo Barbagallo (segretario generale della Uil), del giuslavorista Umberto Romagnoli, di uno studioso come Michele Tiraboschi, ma anche quelle assai diverse di Cesare Damiano (presidente della Commissione Lavoro), di Tiziano Treu (già ministro del Lavoro) e del segretario confederale della Cisl Gigi Petteni.
Assieme alle analisi, le testimonianze di chi vive sulla sua pelle, anche nel 2016, una condizione precaria e di chi ha trovato, con le nuove norme, una gratificante soluzione sia pure non definitiva. Una varietà di posizioni che però non sembrano ostacolare, a livello sindacale, una possibile ripresa unitaria. Come testimonia l’accordo raggiunto da Cgil, Cisl e Uil sulla proposta di un nuovo sistema contrattuale. Il libro è suddiviso in tre parti. La prima ospita, attraverso diversi capitoli riferiti al settore in cui donne e uomini operano, storie di lavoro spesso angoscianti, ma anche testimonianze di chi ce l’ha fatta e di chi, anche attraverso il sindacato, ha conquistato accordi migliorativi. Nella seconda parte, sempre facendo perno sulle rubriche di oltre dieci anni, viene in qualche modo ricostruita, attraverso analisi e proposte, la storia delle leggi collegate all’espandersi della flessibilità: da quelle sul lavoro interinale alla fallita legge Smuraglia che doveva nascere all’interno del governo di centrosinistra, alla legge 30 varata dal centrodestra.
Così come viene raccontato il dibattito dentro il sindacato fino al varo di una contrattazione inclusiva capace di rappresentare non solo gli occupati. Il tutto accompagnato da un’escursione tra libri e film dedicati a questa parte del mondo del lavoro. Mentre altri capitoli approfondiscono il campo delle ricerche effettuate, delle esperienze sparse nel mondo, degli effetti sul welfare, degli accordi raggiunti tra sindacati e imprese nel tentativo di arginare la corsa al precariato. Per concludere con le polemiche che hanno accompagnato l’intero percorso sviluppato nel libro. La terza parte di questo “Vite ballerine” tenta un primo bilancio del Jobs Act, ovvero di quella serie di misure che avrebbero dovuto, secondo l’attuale governo di centrosinistra presieduto da Matteo Renzi, fornire un risposta compiuta al problema del precariato.
Nelle interviste e nei testi appaiono giudizi diversi. È sembrato utile, per me, ritornare su questi dieci anni e sugli epiloghi possibili. Rappresentano, quegli anni, una realtà viva e violenta. Non cancellata. Che non è esplosa come è avvenuto in altre stagioni del passato. Quando quello che chiamavano l’operaio-massa, approdato dal Sud a Torino o Milano, decideva di alzare la testa, di ribellarsi. Oggi i giovani protagonisti di questo libro sembrano abbandonarsi a una quieta attesa. Sono chiamati Neet, acronimo inglese: not in education, employment or training. Ovvero, non studiano e non lavorano. Secondo un recente studio dell’Università Cattolica di Milano sono 2,4 milioni di giovani. Un dato che ha fatto dire al demografo Alessandro Rosina: “Un livello allarmante, mai raggiunto nella storia”.
Anche i giovani che riusciranno a entrare, tramite le sovvenzioni alle imprese previste dal Jobs Act, in luoghi di lavoro, lo faranno con sopra la testa una spada di Damocle. Ovvero, la paura di perdere quel “posto” prezioso, dopo i tre anni, perché licenziati senza possibilità di reintegro anche per futili motivi. Magari perché osano contestare ritmi insostenibili, ambienti nocivi, attacchi all’integrità psicofisica, controlli sui loro telefonini o i loro tablet. Magari perché osano avvicinare il sindacato, organizzare i propri compagni. Una paura, una dose sedativa destinata a permeare nel tempo, via via che le nuove assunzioni sostituiranno la vecchia manodopera, l’intero mondo del lavoro privato di diritti essenziali. Anche per questo acquista un grande valore la Carta dei diritti universali del lavoro voluta dalla Cgil. Una proposta, una leva per il possibile cambiamento.