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A proposito della strategia della Confindustria di Squinzi, delineatasi nel 2013, Giuseppe Berta ha parlato di un “enigma” difficile da decifrare, ma comunque segno di incertezze non risolte. Purtuttavia, Berta rilevava come dato nuovo e insieme una delle principali manifestazioni di questo indirizzo non continuista, quello del riavvicinamento, spesso marcato, alla Cgil, dentro un quadro teso a privilegiare la cooperazione con l’insieme dei sindacati. Nello stesso tempo, lo storico torinese sottolineava anche la fragilità dei principali esiti di questa fase “cooperativa”: l’accordo sulla rappresentanza del maggio 2013, di prevalente natura metodologica (e di impianto troppo bizantino); quello sullo sviluppo del settembre, di carattere sostanzialmente enunciativo, e con scarsa corresponsabilizzazione delle parti sociali nella realizzazione di un’inversione di tendenza nei risultati economici del paese.
Negli ultimi giorni, tuttavia, qualche cosa si è mosso in direzioni diverse, attraverso il documento programmatico della Confindustria in materia di mercato del lavoro e contrattazione e, poi, attraverso le linee guida enunciate dal presidente Squinzi alla massima assemblea di quell’organizzazione. A questo punto c’è da chiedersi se ci troviamo di fronte allo scioglimento strutturale dell’enigma evidenziato da Berta, o piuttosto davanti a semplici aggiornamenti o evoluzioni di natura tattica. Per dare una risposta più precisa a questo interrogativo bisognerebbe indagare in profondità sulle dinamiche interne e sui processi materiali che attraversano quell’organizzazione. Basandoci solo sulla lettura di questi testi appare possibile limitarsi semplicemente ad avanzare qualche ipotesi di lavoro.
Stiamo assistendo sicuramente a un riposizionamento verso il sistema politico da parte della più importante associazione dei datori di lavoro. Indice di un’attitudine alla reattività e all’adattamento a nuovi fattori di contesto: tra i quali non possiamo dimenticare un governo attivista e (nelle dichiarazioni) decisionista, per giunta – prima dell’assemblea confindustriale – sospinto da una imprevista e massiccia legittimazione elettorale. Tutti aspetti ai quali le imprese sono tradizionalmente sensibili, dal momento che nella loro storia associativa, hanno in prevalenza coltivato la vocazione alla vicinanza ai governi (con posizioni varie e soprattutto con una diversificata influenza).
All’origine della fase di “entente cordiale” con i sindacati esisteva comunque un comune sentire e un calcolo condiviso: la debolezza della politica e la necessità che le parti sociali la surrogassero con un ritrovato dinamismo e una stagione di intese bilaterali, candidandosi a decidere “senza” i governi, o impegnandosi a premere perché questi assumessero le decisioni giuste (risorse incluse). Ma negli ultimi mesi questo scenario e questo calcolo sono stati messi in discussione dall’avvento di Renzi alla premiership. Non solo il governo ha ritrovato piglio e una certa, anche ipertrofica, frenesia decisionale. Ma questo ha trascinato con sé alcune novità di non poco conto. La prima è la dichiarata intenzione di fare a meno delle grandi organizzazioni – considerate troppo “lente” se non “superflue” – nelle scelte importanti. Una sorta di dichiarazione di autosufficienza, rivolta non solo ai sindacati – come si tende a dire –, ma anche alle associazioni datoriali. Una scommessa – insidiosa per tutti – di saper decidere prima e meglio, facendo a meno del loro supporto.
La seconda novità è data dal primo atto in cui si è manifestato concretamente questo piglio decisionista: il famoso versamento degli 80 euro ai lavoratori con redditi bassi. Un modo per scavalcare le relazioni industriali formali gestite dalle due parti. Certo uno schiaffo ai sindacati, aggirati attraverso concessione dall’alto di una misura di redistribuzione. Ma anche alle imprese, le cui istanze sono state comunque ritenute secondarie (diversamente da quanto aveva fatto il Prodi bis nel 2006-07 con gli interventi sul cuneo fiscale). La terza novità è quella sotto gli occhi di tutti e che abbiamo già ricordato: il successo elettorale di Renzi – sia pure in elezioni poco partecipate e atipiche come le europee –, che sembra incoraggiare questa direzione di marcia “neo-decisionista” e orientata a “disintermediare” le decisioni.
Di qui l’evidente ricerca di un rinnovato rapporto di attenzione di Confindustria verso la politica, alla quale vengono mandati messaggi (non solo di potenziale sostegno), ma alla quale si chiede anche maggiore attenzione, ricorrendo all’orgogliosa rivendicazione del bacino di rappresentanza associativa (150.000 imprese, che danno lavoro a cinque milioni di persone). Non mancano le critiche al governo – tra le quali, la carenza di semplificazioni per le imprese, la mancanza di una chiara priorità per il rilancio dell’industria. Ma, insomma, si intravede un’apertura di credito, anche con l’obiettivo naturale di non essere esclusi dal nuovo corso. Questa tendenza, lo dicevamo, non è sorprendente. Le risorse pubbliche – non solo quelle economiche – sono centrali per tutte le organizzazioni sociali, anche quelle sindacali. Che pure, a loro volta, avvertono questa esigenza e la manifestano con varie declinazioni “centripete”. In più, le associazioni datoriali sfruttano la possibilità di ricorrere a una pluralità di sistemi d’azione e di muoversi con spregiudicatezza su più piani.
Ma dal documento sulle relazioni industriali emergono anche alcune novità di contenuto, di cui vanno decodificati moventi e obiettivi. Sul versante del mercato del lavoro, dopo un buon esordio (non sono le norme a creare occupazione), il testo si imbarca in una apologia fuori tempo massimo intorno alle virtù della flessibilità, come strada principale per risolvere il problema dei nuovi impieghi. Eppure questa opzione è già stata sperimentata e con risultati che sono considerati da gran parte degli analisti deludenti o peggio: sul piano quantitativo la creazione di nuovo lavoro non è stata risolutiva, sul piano qualitativo quella nuova flessibilità – più o meno deregolata – non è stata accompagnata da adeguate sicurezze per i lavoratori. In realtà, nel nostro paese resta irrisolto il passaggio a un sistema di flexicurity, in cui l’accento diversamente dal passato dovrebbe essere messo sul secondo termine: un certo grado di sicurezza e di stabilità per il lavoro. Invece Confindustria – incoraggiata dalle nuove norme sui contratti a termine – si muove solo sul primo asse del binomio, e si spinge persino oltre, proponendo una flessibilizzazione anche dei contratti a tempo indeterminato.
Anche sulla contrattazione – di cui si chiede una sorta di “riforma della riforma” – il testo pare cavalcare un “nuovo avvio” del decentramento, a partire dal richiamo alla “derogabilità salariale” dei ccnl. Lo stesso documento richiama – con un certo cerchiobottismo – l’importanza di un sistema contrattuale a due livelli. Resta quest’ultimo uno dei capisaldi di un assetto avanzato e bilaterale delle nostre relazioni industriali, ed è il principale frutto del tracciato cooperativo adottato dalle nostre parti sociali: anche se va segnalato che nel testo segnalato si può ritenere che venga suggerita – più implicitamente che in modo esplicito – una specie di “alternatività” tra i due livelli.
Ci troviamo dunque davanti a una chiara svolta? Difficile da dire. Di sicuro la Confindustria ha inteso mettersi in sintonia con il nuovo corso del governo, manifestando la preferenza – popolare anche presso molti suoi associati – per posizioni più “svelte” e più “deregolate”. Rimane sullo sfondo la difficoltà di trovare una sintesi strategica soddisfacente tra tutte le diverse aspettative presenti nel mondo imprenditoriale (grandi e piccole imprese, aperte ai mercati globali o operanti solo su quelli interni ecc.). Certo va notato che si apre un divario tra la ripetuta rivendicazione del ruolo di battistrada della modernità, dell’innovazione e della qualità come tratto distintivo della capacità competitiva del nostro apparato produttivo, e la presentazione di proposte che sembrano più ritagliate su esigenze tradizionali e di corto respiro, in prevalenza collegate ai problemi di quelle imprese minori, che sono incapaci di uscire dall’orizzonte della sola competizione sui costi. Dunque, le posizioni del mondo confindustriale appaiono come un mosaico in movimento, ma ancora in transizione e aperto a diversi esiti: sulla parabola e i contenuti di questa transizione potranno giocare un ruolo rilevante le mosse della politica, ma anche le contromosse dei sindacati.
*Professore ordinario di Sociologia economica alla Sapienza Università di Roma