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Brutte notizie per 466 dipendenti di Trony, la nota catena di distribuzione di elettrodomestici e prodotti tecnologici. Si va verso la procedura di mobilità, e quindi il licenziamento collettivo. I negozi chiusi sono 35, e per i lavoratori (distribuiti tra Lazio, Puglia, Lombardia e Veneto), attualmente già senza stipendio, il destino sembra essere quello della disoccupazione. L’incontro di giovedì 5 aprile al ministero dello Sviluppo economico tra governo, sindacati e il curatore fallimentare Alfredo Haumpt non ha dato i risultati sperati: per ora si è affacciato un possibile compratore, che però rileverebbe soltanto una parte di punti vendita e dipendenti. Una nuova riunione ancora non è stata messa in calendario, ma dovrebbe comunque tenersi per metà aprile.
La Dps Group, una delle società del gruppo Gre (titolare del marchio Trony) che gestiva i negozi ora chiusi, è stata dichiarata fallita il 15 marzo scorso. E mercoledì 28 marzo il giudice fallimentare del Tribunale di Milano non ha autorizzato l'esercizio provvisorio dei punti vendita. L’offerta d'acquisto parziale arrivata al ministero, per ora coperta da segreto industriale (ma alcune indicazioni farebbero convergere su Unieuro), riguarderebbe solo otto dei 35 negozi coinvolti nel fallimento della Dps. Entro dieci giorni, comunque, si aprirà il bando di gara per la vendita (che durerà un mese), dove le offerte verranno formalizzate e rese pubbliche.
“I lavoratori rimangono ancora sospesi e senza retribuzione, per assurdo l'unica alternativa plausibile diventa la Naspi”, spiega Alessio Di Labio (Filcams Cgil), rimarcando che intanto il ministero (che ha assicurato di continuare a monitorare la situazione quotidianamente) “ci supporta nella richiesta di provare a incentivare il più possibile quelle proposte che tendono a conservare i posti di lavoro. Siamo comunque in una procedura fallimentare, quindi si aprirà un'asta, e non è detto che chi arriva prenderà tutti i lavoratori”. Di Labio sottolinea anche che “se la legge Fornero non avesse abolito la cigs per cessazione di attività in caso di fallimento, avremmo avuto più tempo per salvaguardare l'occupazione. Non rimane che la rabbia di dover trattare con un curatore fallimentare che ha come obiettivo solo quello di accelerare i tempi del fallimento. La confusione di alcune informazioni che ci hanno dato dimostra anche l'incapacità di chi ha gestito il gruppo, di cui fanno ora le spese i lavoratori”.
Il marchio Trony è dal 1997 di proprietà del gruppo Grossisti riuniti elettrodomestici (Gre), presente in Italia dal 1972. Il gruppo è composto di più società, tutte italiane, che detengono oltre 200 punti vendita Trony distribuiti sull’intero territorio nazionale e contano oltre 3 mila dipendenti, con un giro d'affari complessivo di oltre un miliardo di euro. Il fallimento, dunque, riguarda soltanto la Dps Group, società appunto appartenente al gruppo Gre, proprietaria solo di alcuni degli oltre 200 negozi. Il gruppo Gre, in una nota, ha invece ribadito “la propria volontà di proseguire nello sviluppo sul territorio italiano, annunciando un piano che prevede per il 2018 circa 40 nuove aperture a marchio Trony”.
“L'epilogo della Dps Trony è da addebitare all’incapacità imprenditoriale di guardare con maggiore lungimiranza al futuro e al saper far fronte alle trasformazioni investendo e innovando” ha spiegato in un comunicato la Filcams Cgil nei giorni scorsi, rilevando di aver già dichiarato “poco credibile il piano industriale presentato nel 2017, che vedeva in giugno la nascita di una nuova società, denominata Vertex, che avrebbe dovuto rilanciare, oltre alla rete di vendita, anche il mercato dell'online. Purtroppo la conferma è arrivata quando l'imprenditore è stato costretto a chiedere il concordato preventivo in bianco, neanche sei mesi dopo aver annunciato il rilancio”. Ma la Filcams punta anche l’indice sul mondo della politica che, “nel cavalcare il cambiamento, ha prestato attenzioni esclusivamente alle evoluzioni dell'online, senza però individuare strumenti che avrebbero dovuto accompagnare il cambiamento, per governare il settore e non far ricadere tutto sul mercato del lavoro”.