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“Dalla Thatcher in poi, e ancora di più con la caduta del muro di Berlino, in Occidente è venuta meno la base su cui era costruito il compromesso keynesiano. Gli equilibri politici sono cambiati. Hanno ripreso il sopravvento le classi dirigenti tradizionali: il capitale e la finanza. Questi hanno cominciato a mettere in discussione tutti i pilastri su cui si era basata la co- struzione dello Stato sociale”. Vincenzo Visco parte da questo passaggio cruciale per definire il rapporto tra tutele, welfare e globalizzazione. Le vicende storiche sono ineludibili, perché è la storia che definisce di volta in volta la portata e i confini dei diritti. Nulla è universale e assoluto. E dentro la storia ci sono anche le leggi dell’economia. Nel momento in cui la produzione diventa “globale”, i vecchi valori entrano in crisi. Il nuovo processo travolge come un uragano soprattutto il mondo del lavoro e il sindacato.
“C’è da tenere conto che lo Stato sociale in tutti i Paesi era stata una costruzione nazionale, e quindi la globalizzazione in sé produce una crisi, in quanto con essa vengono messi in concorrenza diretta i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo con quelli dei Paesi avanzati che a casa loro avevano ottenuto diversi riconoscimenti. Sono stati anche dei fatti oggettivi a rendere superati alcuni diritti: l’evoluzione del sistema economico internazionale era tale da creare uno stress molto forte alle finanze pubbliche dei Paesi avanzati su cui si posava il welfare. Qui la politica c’entra poco, se vogliamo”.
Di Giovanni. C’è da dire tuttavia che il sistema di tutele nato in Italia è molto simile a quello di altri Paesi. Il primo presidente Inca, Aladino Bibolotti, scrive che l’Istituto “provvede a rendere più liete le nozze, presidiando i diritti delle gestanti, delle madri e dei bambini”. Somiglia molto allo slogan inglese “dalla culla alla tomba”. Esiste un portato europeo del welfare, non solo nazionale?
Visco. Certo, anche americano se per questo. Solo che ogni Paese si è fatto il suo, basandosi sulle risorse interne. Nel momento in cui il funzionamento dell’economia diventa sempre di più globale, scoppiano le contraddizioni legate al problema di finanziare tutti questi servizi. Inoltre il sistema di welfare era stato costruito in termini evolutivi: sempre più diritti, sempre più ricchezza. Ma le cose non sono andate affatto così. Tutta questa costruzione, che deriva da William Beveridge e da alcune esperienze scandinave, entra in una crisi irreversibile. E con essa anche il ruolo del sindacato, che era l’inter- mediario e il garante di tutto questo. Per questa ragione la crisi del sindacato oggi è un problema molto delicato, essendo un fatto strutturale, non accidentale. Il modello era entrato in crisi già negli anni 70, con gli shock petroliferi e l’inflazione che ne seguì. Ma se vogliamo ha influito anche l’eccesso di successo.
Di Giovanni. Con successo intende lo Statuto?
Visco. No, no, non sto parlando dell’Italia, parlo in generale. Per esempio in Inghilterra, all’epoca della Thatcher, le Unions spesso erano vissute dalla popolazione come settarie, aggressive, arroganti. Il fatto è che il sindacato non è riuscito ad adattarsi, a trovare strategie nuove di fronte ai cambiamenti dell’economia. Con la globalizzazione in alcuni Paesi è successo che i mercati del lavoro da garantiti diventavano flessibili (nel mondo anglosassone e in parte scandinavi, dove però c’erano dei paracadute). La libertà di licenziare è diventato il nuovo paradigma, che si affermava non solo per motivi di potere, ma anche per ragioni oggettive. Nei Paesi dell’Europa continentale il mercato del lavoro è diventato dualistico, quindi si sono abbassate le tutele per i giovani per mantenerle agli anziani. È avvenuto sulle pensioni e sui contratti. Questo ha delegittimato il sindacato, oltre a creare la contrapposizione tra vecchi e giovani. Questo è il problema a cui non si è trovata ancora la risposta.
Di Giovanni. E l’Inca, il Patronato, anche lui deve cambiare?
Visco. L’Inca aiuta i lavoratori per le pratiche, organizza le tutele. Secondo me il suo ruolo si potrebbe anche allargare ad altri aspetti, come i servizi del lavoro. Se questi devono essere “privatizzati”, cioè esternalizzati dallo Stato, un candidato ideale potrebbero essere i sindacati, perché i corpi intermedi sono un elemento importante della democrazia, che non è fatta solo di elezioni e Parlamenti. Il problema però diventa a questo punto culturale, perché questi corpi intermedi devono essere consapevoli, riconoscere le leggi di funzionamento dell’economia e partecipare attivamente. Una posizione esclusivamente di rivendicazione di tutela dei diritti fissi o immutabili alla fine è perdente.
Di Giovanni. A guardar bene, oggi i lavoratori hanno ancora più bisogno di tutele. Qui sta il paradosso: le tutele si negano quando servono di più.
Visco. Certo: hanno bisogno di trovarsi un lavoro, di avere una formazione continua, di essere difesi o comunque di avere un luogo a cui fare riferimento rispetto alla solitudine in cui si ritrovano. Quindi le forme come il Patronato, queste organizzazioni collettive, sono il sale della terra per una società che non vuole impazzire e che non vuole finire in mano alla malavita organizzata. In Italia questo va detto chiaramente. Perché anche la malavita ha le sue forme di “assistenza”: si preoccupa dei carcerati, delle loro famiglie, dei giovani, approfittando di un vuoto. Il fatto è che queste cose non le può fare solo lo Stato, ecco perché è importante riconoscere una funzione al Patronato. Tanto più oggi che i bisogni aumentano perché si viene massacrati dalla globalizzazione, che sta polarizzando la distribuzione dei redditi, con la scomparsa delle classi medie. Lo sviluppo del dopoguerra, in cui un operaio ben pagato poteva comprarsi la casa e mandare al college i figli oggi non c’è più. Il mercato del lavoro è totalmente cambiato, i lavoratori guadagnano meno, sono soli, è difficile che si alleino, e questo indebolisce il sindacato.
Di Giovanni. Non a caso Luciano Lama nel 40esimo anniversario della fondazione dell’Inca parlò di una trappola secondo cui il singolo individuo nella società postindustriale si difende da sé, non ha bisogno del sindacato. Lui già capisce che in realtà il bisogno di associarsi è più forte...
Visco. Certo il 1985 è un’era geologica fa, ma già iniziavano i primi segnali di quello che poi sarebbe avvenuto. L’Inca rappresenta il fatto di non stare sul mercato da solo, nei confronti della Pubblica amministrazione da solo, nei confronti delle imprese da solo. L’individualismo può essere anche una bella cosa dal punto di vista concettuale, ideale: la libertà di fare quello che vuoi. Solo che poi sul mercato non sono tutti uguali: in modo molto elementare lì chi ha più soldi comanda. Il mercato non è democratico, ma funziona in base al principio una lira un voto, mentre la democrazia è una testa un voto. Quindi se un lavoratore si organizza è più forte e più tutelato. Questo prima era chiaro a tutti: la gente sapeva bene che la forza stava nella mutualità, nell’unione. Oggi non è più così, perché si è diffusa l’illusione che stando da solo ce la si cava meglio, comunque si riesce a ottenere qualcosa in più dell’altro.
Di Giovanni. Il valore della mutualità si è perso?
Visco. La mutualità si basava sul fatto che tu eri uguale agli altri, e quindi essendo uguale agli altri ti conveniva aiutare gli altri per essere aiutato tu in caso di bisogno. Che poi è il principio dell’assicurazione. Oggi invece si pensa che ciascuno è diverso dagli altri. Per di più oggi, a differenza di allora, la spinta verso la mutualità è molto minore perché abbiamo raggiunto un livello di benessere maggiore, la gente non muore di fame, abbiamo una struttura familiare che fa da cuscinetto, compensa e ammortizza. Tuttavia ci sono Paesi, come ad esempio la Germania, in cui l’organizzazione, il sindacato, l’azione collettiva, esperienze come le casse di risparmio, sono elementi ancora fortissimi. Ciò nonostante oggi c’è la situazione paradossale per cui un tedesco pensa ai fatti suoi assieme agli altri tedeschi e se ne frega dei poveri greci. Perciò non basta solo favorire un’organizzazione collettiva: il problema andrebbe allargato sul piano culturale, politico. C’è un lavoro enorme da fare per rifondare la sinistra, tenendo conto che le condizioni non sono più quelle di quando si cresceva continuamente, e quindi crescendo si poteva avere comunque un beneficio, anche se poi i ricchi si arricchivano ancora di più. Oggi è più complicato perché diventa un gioco a somma zero, c’è chi prende e chi dà, e per di più non prendono tutti.
Di Giovanni. Nel futuro quali evoluzioni vede?
Visco. Tutte queste esperienze di grande valore, di tutela e di assistenza, vanno ripensate, rafforzate e rese attente a possibili sviluppi. Ci vogliono capacità organizzative. Soprattutto il lavoro va affrontato a livello internazionale. Proprio la struttura dell’Inca, con le sue sedi nei Paesi di emigrazione degli italiani, potrebbe essere una via per internazionalizzare alcune funzioni dei sindacati.
Di Giovanni. In effetti l’Inca si è data una struttura internazionale da subito, già negli anni 50.
Visco. Certo, questo era uno dei pezzi di espansione del sindacalismo riformista. La tradizione del movimento operaio in tutto il mondo nasce con i sindacati, le cooperative, le mutue, l’assistenza. Questo è quello che poi unisce la tradizione socialista con quella cattolica. Ed era questo uno degli elementi che era alla base dell’idea – forse stravagante per come è stata attuata – di fare il Partito Democratico. Se si fossero recuperate queste radici comuni, probabilmente si sarebbe costruito un partito più forte.
* Professore di Scienze delle finanze, Università La Sapienza di Roma. È stato ministro delle Finanze dal 1996 al 2000 nei governi di centro sinistra; ministro del Tesoro e del Bilancio dal 2000 al 2001 (governo Amato II) e vice ministro dell'Economia con delega alle Finanze dal 2006 al 2008 (governo Prodi II). Dal 2001 è presidente del Centro studi Nens, Nuova Economia Nuova Società, di cui è uno dei fondatori. Nel 2004 viene insignito del dottorato ad honorem presso l'Università di York.