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La procedura di licenziamento collettivo avviata per 1.666 persone, i trasferimenti forzati di 43 neo-mamme da Roma in Calabria e di altri 64 lavoratori da Milano – la tagliola scatterà il 3 novembre – dopo il no ad alcune proposte dall'azienda. Accordi separati, promesse del governo (non mantenute) e commesse pubbliche (assegnate), la scelta dei vertici di spostare centinaia di postazioni in Romania. La vertenza Almaviva – il più famoso call center d'Italia – ha davvero tutti gli ingredienti per essere una delle più significative degli ultimi anni, col pericolo che diventi un precedente che abbassa ancora di più l'asticella dei diritti, semmai qualcuno ne sentisse il bisogno.
Se n'è parlato in una conferenza stampa nella sede della Cgil nazionale, a partire proprio dalla questione delle neo-mamme costrette a lasciare la Capitale se vogliono mantenere il posto. Qualcuna ha deciso di dimettersi in modo “volontario” per avere la copertura della Naspi. Ma c'è chi resiste, come Lucilla Speranza, che la racconta così: “Io sto tenendo duro. Per adesso c'è il divieto di licenziamento fino al compimento del primo anno di vita del bambino, che avverrà ad aprile dell'anno prossimo. Dopodiché anch'io riceverò, com'è stato già per altre colleghe, la lettera di trasferimento a circa 700 chilometri di distanza da casa. Per noi – racconta la donna – questi trasferimenti sono assurdi, così come sono assurdi ovviamente i trasferimenti della sede di Milano. Queste sono le tutele destinate alle donne in Italia? Tra l'altro non possiamo neanche aderire al progetto di ricollocazione dell’Anpal”.
Il trasferimento nella nuova sede “è una soluzione fondata sull'esigenza di salvaguardare la posizione di lavoro, attraverso una collocazione alternativa, dopo la chiusura del sito produttivo”, insiste l'azienda in una nota, evidenziando che “nei pochi casi sfociati in contenzioso, la giurisprudenza ha riconosciuto la regolarità della condotta aziendale”. Ma il sindacato non è d'accordo. "Si tratta di una delle più profonde ingiustizie della storia del lavoro di questo paese”, commenta il segretario generale della Cgil Roma e Lazio, Michele Azzola: “Costringere 43 neo-mamme a licenziarsi perché hanno fatto un figlio o ad andare a Rende, in provincia di Cosenza, per continuare a lavorare e guadagnare 800 euro al mese rappresenta una delle peggiori pagine della storia di questo paese. Se non siamo in grado di indignarci rispetto a quello che sta succedendo con una azienda che sfrutta i soldi pubblici e tratta così i lavoratori, credo che abbiamo poche prospettive”. Quanto al progetto di ricollocamento per i 1.666 licenziati, “finora è una scatola vuota”, osserva il sindacalista.
Il numero uno della Slc Cgil Fabrizio Solari parla di “distanza abissale tra il dramma dei lavoratori in carne e ossa e i tweet”, chiedendo al ministro Calenda di convocare le parti per trovare soluzione strutturale. La richiesta giunge nel giorno dell'ennesimo sciopero in concomitanza con il tavolo al ministero dello Sviluppo tra governo e parti datoriali (Almaviva ed Eni) sulla commessa milanese, che si è tenuto però senza i rappresentanti dei lavoratori. “È obbligatorio evitare i ricatti, non possiamo scaricare questa scelta sulle Rsu”, riprende Solari: “L'unico modo per evitarlo è il contratto nazionale, basterebbe tornare là, lasciando a livello aziendale solo le questioni di adattabilità e flessibilità, nulla che riguardi il costo del lavoro. L'altro tassello – conclude – è regolare per legge la rappresentanza in modo che i contratti abbiano valore erga omnes e non sia più possibile per le aziende sottrarsi, nemmeno se decidono di uscire dalle organizzazioni di rappresentanza”.