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Al presidente Renzi, si sa, il sistema di relazioni con le parti sociali interessa, ma solo a patto che sia lui a dettarne le regole. Così, ben venga (in linea del tutto teorica, beninteso) l’interlocuzione con Cgil, Cisl e Uil, ma vuoi mettere quanto sarebbe meglio se le organizzazioni dei lavoratori si riducessero a una? Quanto risulterebbe semplificato lo scenario negoziale senza più “sigle su sigle”?
Parole dal retrogusto decisamente autoritario, che mandano con un sol colpo a farsi benedire l’idea di sindacato unitario, cara in particolare alla segretaria generale Cgil Susanna Camusso, poggiata per anni sulle solide basi di un assunto che fino a ieri sembrava di senso comune, e cioè che il pluralismo tra le confederazioni rappresenta la migliore garanzia a sostegno della democrazia nei luoghi di lavoro.
E pazienza se la nostra Costituzione, all’articolo 39, dice che le modalità che disciplinano il diritto di associazione sindacale sono libere e non è appannaggio di nessuno imporle (né tantomeno, facendo leva su di una posizione di potere, suggerirle). Ciò che più conta è l’agibilità politica del presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori.
Ma come si spiega questo pesante sconfinamento in campo altrui da parte di Matteo Renzi? Cosa nasconde il suo iperattivismo sul versante delle riforme sociali? L’uscita sul sindacato unico è solo l’ultima di una lunga serie di interferenze – dalla legge sulla rappresentanza alla ventilata stretta sugli scioperi nei servizi pubblici – che suonano come un appello rivolto alle associazioni sindacali (tutte, anche quelle a difesa degli interessi delle imprese) a rinnovarsi al più presto, seguendo però un canovaccio che lo stesso premier ha la pretesa di metter loro a disposizione.
E tra le tante idee lanciate negli ultimi tempi, nel mirino dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi sembra esserci, più di ogni altra cosa, il trasferimento delle prerogative fondamentali della contrattazione da quella nazionale di categoria a quella aziendale, la carta su cui principalmente intende puntare – spalleggiato dagli autorevoli punti di vista di Sergio Marchionne e, più di recente, di Mario Draghi – per rilanciare la produttività nel nostro paese.
Il fatto è che lo spostamento delle voci salariali sul livello di contrattazione legato alla produttività, con il risultato di un sostanziale svuotamento del ccnl, a cui non rimarrebbe che una mera funzione regolatoria, vede le tre sigle confederali attestate su posizioni diverse. Più inclini al confronto Cisl e Uil (ferme comunque nel proporre una formula che preveda meccanismi di salvaguardia laddove non si faccia negoziazione decentrata), più decisa nella difesa del ruolo del contratto nazionale la Cgil.
Un orientamento, quello del sindacato di corso d’Italia, bollato – soprattutto negli ambienti vicini al presidente del Consiglio – come conservatore, quando non addirittura rigidamente ideologico. Stanno veramente così le cose? Chi lo sostiene parla a sproposito, dimostrando come minimo una discreta dose di malafede. Non si può far finta di non sapere che la pratica della contrattazione di secondo livello è diffusa soltanto in una piccola parte del mondo del lavoro. Ignorarlo significa riproporre l’idea di un mercato duale: da un lato, una minoranza di lavoratori che può ambire ai benefici della produttività e, dall’altro, la maggioranza, destinata a condizioni salariali marginali.