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Nelle ultime settimane alcuni esponenti della maggioranza di governo hanno dichiarato la volontà di rivedere il “decreto dignità”. A sette mesi dall'attuazione della legge, dunque, è bene fare il punto sulle evoluzioni del provvedimento e sulle principali soluzioni contrattuali che abbiamo praticato, evitando il ricorso ai contratti di prossimità. Il “decreto dignità”, pur partendo da un’impostazione condivisibile rispetto al ripristino delle causali per limitare ai casi di effettiva necessità l’utilizzo del tempo determinato dopo la liberalizzazione degli ultimi anni, per le modalità di attuazione, in particolare la scelta dell’introduzione delle casuali solo al 12mo mese, sta generando notevoli problemi.
Da un lato, ci troviamo di fronte a interpretazioni restrittive da parte delle aziende che hanno spinto e spingono per chiedere la sottoscrizione di “articoli 8”, allo scopo di evitare le causali o per sostituire tutti i lavoratori prima che raggiungano i 12 mesi, alimentando un inaccettabile turn over; dall'altro lato, ci troviamo di fronte a numeri consistenti di lavoratori, tempi determinati o in somministrazione che, pienamente inseriti nel ciclo produttivo aziendale, chiedono la continuità del loro impegno lavorativo.
Cos’è successo finora
La norma, come avevamo previsto, ha prodotto la stabilizzazione dei lavoratori meno fungibili, cioè le imprese hanno stabilizzato quei precari con livelli di competenze e abilità difficilmente reperibili. Sono comunque una percentuale abbastanza limitata, nell’ampia platea di lavoro precario, sia esso in somministrazione o a tempo determinato. È cresciuto, inoltre, il ricorso al lavoro intermittente e a rapporti di lavoro fintamente autonomi, nell’ambito dell’occasionalità.
Le aziende hanno chiesto di sottoscrivere accordi di prossimità, talora per ragioni (durata massima, percentuale di utilizzo) per cui il ricorso alle deroghe non è necessario perché la norma lascia in mano alla contrattazione la possibilità di intervento su queste materie. In generale, comunque, riteniamo sia aumentato il ricorso agli articoli 8.
Le problematiche maggiori, soprattutto nei settori del terziario, si sono ingenerate in ragione dell’assenza fra le causali di una che rispondesse ai picchi programmabili, che sarebbe stata utile ad affrontare la flessibilità programmabile di molti cicli produttivi. Si sono, infine, determinate alcune situazioni paradossali, come quella che riguarda le scuole paritarie private, dove sono a tempo determinato molti lavoratori che hanno i titoli ma non hanno l’abilitazione: mancando i concorsi per l’abilitazione, le scuole non possono trasformare questi lavoratori (senza abilitazione) a tempo indeterminato perché perderebbero la parità scolastica, mentre invece vorrebbero tenerli anche per ragioni legate alla continuità didattica.
Cosa abbiamo fatto e quali indicazioni per il futuro
In questi mesi, anzitutto, la contrattazione ha saputo trovare molte soluzioni utili ad affrontare una situazione di forte incertezza dei lavoratori, spesso anche strumentalizzata dalle imprese. Ma alla luce dei dati di questi mesi è opportuno riflettere sulla trasformazione della forza lavoro dentro le imprese, che spesso hanno ovviato alle legittime necessità di flessibilità con scelte che di fatto hanno reso strutturale l’utilizzo precario di ampie fasce di lavoratori, resi in questo modo più ricattabili e meno disponibili a condividere rivendicazioni comuni con i lavoratori a tempo indeterminato.
In primo luogo confermiamo che la contrattazione in deroga non è per la Cgil, e nemmeno per Cisl e Uil (come sostenuto nel documento unitario), lo strumento cui affidare la soluzione delle criticità che ci si propongono con le nuove norme.
Il secondo punto è la continuità occupazionale, cioè la necessità, nei processi di ristrutturazione aziendale e nell’identificazione dei percorsi di stabilizzazione, di tenere in considerazione il perimetro ampio dell’occupazione, comprensivo quindi dei lavoratori somministrati e parasubordinati, i quali dovrebbero essere inseriti nei bacini di prelazione. La scelta della contrattazione inclusiva, quindi, deve essere sostenuta attraverso la condivisione, con tutte le categorie che rappresentano i lavoratori, di percorsi e strategie comuni per dare sostanza all’idea di ricomposizione della forza lavoro. È evidente che uno degli effetti della norma è l’incremento dell’utilizzo della somministrazione a tempo indeterminato, allo scopo di bypassare il tema delle causali. In buona parte della contrattazione di secondo livello di questi mesi, infatti, l’utilizzo concertato della somministrazione a tempo indeterminato è stato uno strumento utile a governare la flessibilità e a consentire di mantenere l’occupazione presente nelle imprese.
Il terzo punto riguarda il ricorso alla stagionalità, che in alcuni contesti ha consentito di gestire in modo flessibile e governato gli effetti del decreto e le criticità determinate dalle causali al 12mo mese. Nella contrattazione analizzata finora, l’allargamento delle mansioni e dei periodi riconducibili a stagionalità è stato fatto, a volte forzando, nel rispetto della peculiarità di questa condizione, su cui da tempo si discute di aggiornare il Dpr di riferimento (risalente al 1963). Ma è evidente che il suo perimetro di utilizzo non deve essere ampliato eccessivamente, così come vanno definiti e regolamentati i bacini di prelazione, anche attraverso una definizione più cogente dell’esercizio del diritto di precedenza, che andrebbero riconosciuti nell’ambito della stagionalità anche ai lavoratori somministrati, per consentire quando possibile la stabilizzazione di questi lavoratori.
Il quarto punto riguarda la possibilità di disciplinare contrattualmente le altre tipologie di lavoro che possono essere utili alla regolazione della flessibilità. Anche alla luce delle recenti sentenze e dei possibili contenziosi che come Cgil attiveremo, pensiamo che il part-time verticale, ove sostenuto da diritti in termini di copertura contributiva e accesso alla disoccupazione, potrebbe essere uno strumento utile a rispondere alle reali esigenze di flessibilità. Parimenti sarà utile ragionare sul contratto di lavoro intermittente e sul lavoro occasionale, per trovare le risposte contrattuali adatte ad arginarne l’utilizzo o a rafforzare le tutele e le garanzie dei lavoratori.
In conclusione, riteniamo che non vada messo in discussione l’impianto della norma in se stessa, arretrando rispetto alla reintroduzione delle causali, sulla cui ridefinizione andrebbe evitato, in ogni caso, un totale rimando alla contrattazione, in particolare a quella non nazionale. Meglio sarebbe, oltre a un intervento che leghi la causale all’attivazione del contratto a termine, una modifica che, nel rispetto delle causali per legge, cui sarebbe opportuno aggiungere la fattispecie dei picchi programmabili, affidi alla contrattazione la possibilità di specificare le causali stesse e di renderle aderenti ai diversi contesti produttivi.
Tania Scacchetti è segretaria confederale della Cgil nazionale; Corrado Ezio Barachetti è coordinatore Mercato del lavoro della Cgil nazionale