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Quelle che seguono sono, in svariati campi e settori d’interessi, alcuni degli esempi più interessanti delle pratiche di sharing economy nel nostro paese.
Sardex
La collaborazione passa anche per le monete. Alternative in questo caso. Seguendo l'esempio dello Wir svizzero nato all'indomani del crisi del 1929 per sopperire alla carenza di valuta, Sardex è un circuito commerciale complementare nato in Sardegna nel 2009. E anche stavolta la crisi finanziaria ha fatto la sua parte “È proprio in quel periodo che avevamo cominciato a guardare con una certa apprensione a ciò che stava accadendo Oltreoceano. Il fatto che la crisi partisse proprio dal sistema finanziario ci ha portato a riflettere sulle inevitabili ricadute di quest'ultima sull'economia reale – spiega Carlo Mancosu, uno dei principali ideatori –. Il nostro è un nuovo modello di cooperazione appositamente pensato per le comunità locali: Sardex è una moneta complementare e supplementare, capace di affiancarsi a quella tradizionale. Di fatto ne ha controbilanciato almeno in parte la caduta. Perché si tratta di un circuito in cui le aziende dell'isola, attraverso l'utilizzo di una unità di conto digitale, hanno la possibilità di sostenersi a vicenda, finanziandosi reciprocamente senza interessi. Non un'alternativa pura e semplice, ma un'opportunità in più”. Con oltre 2.500 aziende il circuito sta avendo un grande successo e dall'isola si sta spostando sul continente.
Social Street
Sono storie di non ordinaria normalità quelle che si possono sentire ogni giorno in via Fondazza, a Bologna, la prima social street del mondo nata nel 2013. Fenomeno nato e cresciuto in Italia, la social street è la più forte idea di sharing ed è nata quasi per caso. “Mi sono accorto che non conoscevo nessuno dei miei vicini, nonostante da qualche anno abitassi in questa strada. Così ho deciso di aprire un gruppo su Facebook e di stampare una cinquantina di volantini per coinvolgere anche chi non fa uso del web – racconta Federico Bastiani, giornalista ed esperto di comunicazione –. Tempo qualche giorno e l’idea è decollata: ormai abbiamo oltre 10.000 iscritti al gruppo e un po' ovunque ne nascono simili al nostro, “Residenti di via...” con di seguito il nome della strada. Regole predefinite non ce ne sono, Facebook è solo un mezzo per far incontrare le persone, far riscoprire la solidarietà e la condivisione”. Sul web si parla dei problemi della strada, delle questioni da affrontare e da risolvere, ma partono anche un mucchiodi di idee: si organizza una festa di Natale, una mostra fotografica, si lancia un progetto per gestire un giardino comunale, si abbellisce la strada. E poi, soprattutto, ci si incontra e, nei limiti del possibile, ci si aiuta. C'è chi vuol vendere un frigorifero, chi chiede informazioni sui medici della zona, chi si è appena trasferito e vuole conoscere qualcuno. Nessuno spende niente e nessuno ci guadagna niente. Ormai le social street stanno spuntando in tutta Italia e sul portale www.socialstreet.it sono raccolte tutte le principali esperienze.
Crowdfunding civico
Anche questo fenomeno tutto italiano e radicato sul territorio si qualifica come finanziamento collettivo di opere e progetti pubblici – al di fuori del budget dell’ente o amministrazione interessati – effettuato da cittadini, organizzazioni e società private, talvolta in match funding con le stesse amministrazioni. È un diverso approccio al crowdfunding tradizionale di piattaforme come Kickstarter, in quanto tenta di colmare una crescente sfiducia nei confronti dell’amministrazione pubblica; va verso una nuova forma di governo partecipativo caratterizzato da una maggiore “trasparenza”, garantita dalla possibilità dei cittadini di accedere attraverso il web in qualsiasi momento alle informazioni riguardanti il progetto sostenuto. Porta di fatto off-line le comunità nate on-line, permettendo la realizzazione di beni comuni. Una delle realtà più interessanti è Help to Raise, dedicata alle amministrazioni comunali, sempre più in difficoltà in questi anni.
Banche del tempo
Pur essendo nate prima dell'avvento di internet, le banche del tempo sono forse alla base della sharing economy. Si tratta di un sistema di condivisione del tempo, in cui le persone scambiano reciprocamente attività, servizi, saperi; libere associazioni tra persone che si auto-organizzano e si scambiano tempo per aiutarsi soprattutto nelle piccole necessità quotidiane. “Luoghi” nei quali si recuperano le abitudini ormai perdute di mutuo aiuto tipiche dei rapporti di buon vicinato o in cui si estende a persone prima sconosciute l’aiuto abituale che ci si scambia tra appartenenti alla stessa famiglia o ai gruppi di amici. Molto simili alle social street, le banche del tempo sono organizzate come istituti di credito in cui le transazioni sono basate sulla circolazione del tempo, anziché del denaro. La più grande differenza è che non si maturano mai interessi né in passivo e né in negativo. L’unico obbligo che si ha è il pareggiamento del conto. Dal portale www.associazionenazionalebdt.it è possibile scoprire se esistono banche del tempo nella propria città.
Shareable cities
Dalle social street impossibile non cominciare a pensare più in grande, prima alle shareable towns (paesi condivisi, realtà esclusivamente italiana) poi alle shareable cities, già presenti in altri paesi. Una “città condivisa” permette ai residenti di condividere in modo efficiente e sicuro beni e competenze – dagli spazi alle automobili, dalle competenze alle utility – per creare comunità più forti, sane e connesse. Dal punto di vista politico, una “città condivisa” significa affrontare molteplici aspetti della pianificazione urbana e del benessere della comunità attraverso la lente dell’economia collaborativa e sostenere attivamente questi obiettivi. Si tratta di realtà che nel nostro paese stanno lentamente muovendo i primi passi. La Milano dell'Expo sarà ad esempio una sfida interessante e difficile, nata tramite Sharexpo, piattaforma che racchiude varie organizzazioni e che è il cuore della sperimentazione dei servizi collaborativi.