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Quando il direttore di Rassegna Sindacale mi ha chiesto di scrivere qualcosa sull’ultimo libro di Gaetano Sateriale ho detto subito sì. Per più ragioni. Perché a Rassegna e alla Cgil devo molto – se non altro la mia intera vita lavorativa –. Perché ho letto nel tempo, apprezzandoli, tutti i libri scritti da Sateriale. E, da ultimo, ma non per importanza, perché di Gaetano sono amico da tanti anni, tanti che non ricordo esattamente quanti, ma comunque più di trentacinque. Ciò detto, e avendo messo le carte in tavola sulla mia non totale imparzialità rispetto al libro e al suo autore, smetto di scrivere di me e mi accingo al compito che mi ha affidato Guido Iocca.
Prendendo in mano questo “Dai banchi e dalle officine”, pubblicato da poco più di un mese dall’Ediesse, e iniziando a leggerlo, ho faticato un po’ a inquadrarlo. Nella sua scrittura limpida infatti è un romanzo, su questo non c’è dubbio, ma a volte sembra anche un saggio. Dopo un po’ però ho capito. Sateriale ha raccontato una storia, sostanzialmente la sua (anche se il protagonista non si chiama Gaetano, ma Enrico), dalla quale ha espunto quanto di “romanzesco” potesse esserci. Il protagonista nasce, cresce, s’innamora, si sposa, ma tutto questo, pur essendo presente, nei nomi e nelle storie di famiglia e degli amici, è quasi un “a margine”.
La forma è dunque quella del romanzo, un romanzo di formazione sul filo della memoria, che ha però un suo centro ben preciso, ha cioè il suo cuore nel tema del lavoro, variamente declinato: da quello osservato dall’autore bambino durante le sue estati in campagna, a quello studiato all’università e nei primi anni di ufficio studi della Cgil, a quello vissuto e contrattato poi nell’esperienza vera e propria di sindacalista.
Sullo sfondo Ferrara e il Ferrarese, città bellissima e terra ubertosa, con una forte tradizione sindacale e di sinistra, un’agricoltura molto viva che segue i cambiamenti del tempo, una grande presenza di piccola impresa e due moloch industriali, il petrolchimico e lo zuccherificio. Nello zuccherificio era ambientato il precedente romanzo di Sateriale (“Tutti i colori dello zucchero”, Bompiani, 2014). Il Petrolchimico invece fa da sfondo a questo: dall’inizio, in cui il giovane Enrico, che reputa uno spreco di tempo dormire la notte, si consola sapendo che il cugino più grande, Egidio, di notte lavora, proprio nel Petrolchimico; al tempo della politica, nel 68 e dopo, nel Movimento studentesco e in Potere Operaio, quando gli studenti cercano un rapporto con gli operai del grande stabilimento; fino all’esperienza sindacale in Cgil che, dopo l’ufficio studi, comincerà proprio nella categoria dei chimici.
Leggendo “Dai banchi e dalle officine” ho apprezzato molto – ma per me non è una novità – la qualità cristallina della scrittura, il modo in cui Gaetano riesce a raccontare e a rendere semplici e anche attrattive materie ostiche e antiromanzesche, come l’organizzazione del lavoro e il sistema dei turni in fabbrica (e del resto tanti anni fa proprio per Rassegna e l’Edit.Coop scrisse quel “Contrattare in azienda” che era un piccolo capolavoro, anche per la sua chiarezza, di formazione sindacale).
Lavoro e sindacato, dunque, come filo rosso della storia raccontata nel libro. Nel quinto e ultimo capitolo il protagonista è la Cgil. Gaetano/Enrico racconta a un intervistatore il suo ingresso e le sue prime esperienze in Camera del lavoro e, pur avendo posto esplicitamente all’intervistatore come limite temporale della chiacchierata il 1980, parla del sindacato di allora e di oggi. Ci sono delle belle pagine su come si lavora in Cgil, nell’emergenza e nella quotidianità, su come la Confederazione non sia e non possa essere, per come è fatta, un’organizzazione leaderistica. E c’è il racconto, proprio alla fine, di quando il segretario della Camera del lavoro di quegli anni, Gabriele Zappaterra, chiede al ventiseienne Enrico se vuole cominciare a fare il sindacalista davvero e gli propone l’opzione tra metalmeccanici e chimici.
Enrico risponde come rispose Gaetano allora, scegliendo i chimici. Perché c’era il Petrolchimico a Ferrara, certo. Ma anche perché i chimici avevano una tradizione contrattuale, di concretezza e insieme di capacità di sperimentazione, che sentiva più vicina alle sue idee e ai bisogni del mondo del lavoro. Una maggiore sintonia che, se posso permettermi un’ultima nota personale, anche il sottoscritto, certo da osservatore e non da attore, ha sentito e condiviso fin da quando, circa quarant’anni fa, ha iniziato a occuparsi di mondo del lavoro.