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La Moldavia o il Bangladesh sono ormai a casa nostra non, come si potrebbe pensare, per via dell’aumento degli immigrati, bensì per le condizioni di lavoro che abbiamo importato da quelle aree del mondo. E’ quello che suggerisce un dossier della Campagna abiti puliti sulle condizioni dei lavoratori del tessile in tre regioni italiane: il Veneto, la Toscana e la Campania, la prima fortemente caratterizzata da un ritorno a casa delle grandi griffe dopo un ventennio di delocalizzazioni, la seconda dalla forte presenza di subfornitori cinesi e la terza dove, storicamente, il confine tra il legale e l’illegale è spesso difficile da riconoscere.
È per questo che il viaggio dei ricercatori della Campagna è un po’ come una discesa negli inferi del made in Italy: seguendo le tracce della filiera produttiva, man mano che si percorre verso il basso la scala dei subappaltatori, può capitare di ritrovarsi in uno scantinato dove si lavora al di fuori di ogni regola o in abitazioni private dove si cuce per due euro l’ora, tante quante ne guadagnavano le due donne impiegate al nero (una di loro appena quindicenne) che nel 2006 morirono nell’incendio del materassificio in cui erano impiegate, in uno scantinato di un palazzo a Montesano sulla Marcellana, nel basso salernitano.
L’episodio, alla vigilia della finale dei Mondiali di calcio che vedrà trionfare l’Italia, indignò gli alti vertici della politica, a cominciare dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ma non è che da allora la situazione sia migliorata. Basta vedere cosa nascondono, ancora oggi, i roghi della Terra dei fuochi: gli scarti dell’industria calzaturiera e dell’abbigliamento, affidati per pochi euro a giovani rom incaricati dello smaltimento illegale. Un circuito difficile da spezzare se non si interviene a monte, laddove il rifiuto si produce.
“Standardizzazione, flessibilità oraria, bassa scolarizzazione dei lavoratori, paura di perdere il posto di lavoro, scarsa sindacalizzazione: tutti elementi tipici delle fabbriche bengalesi o moldave”, denunciano i ricercatori. Le stesse condizioni che avevano denunciato nei mesi scorsi in un analogo rapporto sulle delocalizzazioni nei Paesi dell’Est, con salari da fame, al di sotto dei duecento euro al mese, in una regione della Bulgaria e nelle aree della Turchia vicine al confine con la Siria.
In Italia, almeno per chi lavora alle dirette dipendenze delle griffe, gli stipendi rimangono superiori: 1100-1200 euro di media, anche se per l’Istat nel nord Italia non sono sufficienti ad avere un tenore di vita dignitoso. Ma il problema è nella filiera produttiva. Man mano che ci si addentra nei contratti di fornitura e subfornitura le condizioni lavorative peggiorano, in una situazione definita di “post-occidentalizzazione”, vale a dire di adeguamento delle condizioni di lavoro a quelle dei Paesi entrati in Europa dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Ne viene fuori una piramide lavorativa dove, ai vertici, si trovano i dipendenti diretti dei grandi marchi, quelli che stanno meglio perché hanno il contratto collettivo e sono i più organizzati, e alla base i lavoratori alle dirette dipendenze di piccole imprese cinesi (molto presenti nel settore calzaturiero e nell’abbigliamento) o anche italiane, fino ad arrivare a chi lavora al nero, che sfugge anche alle grandi griffe perché queste ultime tengono i rapporti solo con il primo anello della subfornitura. Così, più si scende, più sono magri i salari e peggiori le condizioni di lavoro. Una catena del lavoro che è molto difficile da ricostruire, anche perché, spiegano gli autori della ricerca, “i marchi non sono per niente disponibili a pubblicizzare i nomi dei loro fornitori e in molti casi non hanno nemmeno il controllo completo dell’intera filiera”.
Secondo la ricerca, la situazione nell’industria italiana dell’abbigliamento e delle calzature è decisamente peggiorata negli ultimi vent’anni: molte imprese hanno chiuso e i fatturati sono diminuiti per via del calo dei consumi. Ora, dopo anni di produzioni esportate in Romania, in Moldavia o in Cina, si assiste a un ritorno delle multinazionali, che però “importano le condizioni di lavoro e i livelli salariali” che hanno trovato altrove. Il caso più emblematico è quello della Riviera del Brenta, tra Padova e Venezia, dove si producono soprattutto calzature femminili.
Qui Prada ha acquistato la Giorgio Moretto e, dalle testimonianze raccolte, “pare sia la griffe con rapporti sindacali più difficili e condizioni di lavoro più critiche”. La compagnia (finita di recente nella bufera per via di un’inchiesta della trasmissione televisiva Report) è anche l’unica delle grandi case del lusso nella Riviera del Brenta che applica il contratto collettivo del cuoio, che è “peggiorativo rispetto a quello calzaturiero”.
I francesi di Louis Vuitton nella stessa area hanno invece fatto due acquisizioni e aperto un nuovo stabilimento a Fiesso d’Artico dove lavorano 360 persone e producono ottocentomila paia di stivali, mocassini, calzature da sera, sportive e ballerine ogni anno. All’interno dello stabilimento veneto, però, non si compie l’intero processo produttivo: oltre alla progettazione, si fanno l’assemblaggio e la finitura, con l’aiuto di robot e di tomaie prestampate e importate dall’India. Il costo per il consumatore è così abbattuto, e pure il lavoro.