Si è da pochi giorni concluso il G20. La sintesi della discussione è sempre la stessa: si delineano delle soluzioni di buon senso, ma nessuno è realmente disposto a perseguirle, se non nell’interesse nazionale. Poco male, se fossero implementate, ma alcune delle riforme suggerite necessitano di un coordinamento sovranazionale e nuove istituzioni del capitale. Il no alla volatilità eccessiva dei mercati, la necessità di coordinare una politica economica “inclusiva, rinvigorita, innovativa e interconnessa”, presuppongono orizzonti adeguati. Non basta un comunicato o una stretta di mano per uscire dal pantano della lunga stagnazione.

Rimane il richiamo non banale per una politica economica a tutto tondo: “Per raggiungere questi obiettivi non basterà solo la politica monetaria, ma occorrerà fare ricorso a tutti gli strumenti, monetari, fiscali e strutturali, da parte di ogni singolo Paese e collettivamente”. Se pensiamo alle politiche europee, c’è da mettersi le mani nei capelli, ma dobbiamo anche prendere atto che i responsabili nazionali dei Paesi comunitari sono anche più liberisti della Commissione.

Solo per rimanere a casa nostra, Renzi propone di ridurre le tasse per rilanciare l’economia; il G20 sostiene la necessità di investimenti di qualità per creare posti di lavoro legati all’innovazione come elemento chiave per combattere la crescita debole degli ultimi anni, con un piano G20 Innovation Action Plan: economia digitale e rivoluzione industriale. Industria 4.0 è solo la brutta copia delle riforme di struttura di lombardiana memoria: cambiare il motore della macchina senza fermarla. Non manca l’idea di coniugare ambiente e crescita sostenibile.

Se il governo italiano raccogliesse una parte di queste proposte, il nostro Paese farebbe un bel salto in avanti, ma il G20 è culturalmente più attrezzato dei ministri italiani. E non solo. La crisi italiana non è figlia della crisi internazionale. Comodo un po’ per tutti sostenere questa tesi, ma l’Italia vive una crisi nella crisi, come più volte ricordato da Sergio Ferrari nel Libro bianco e rosso per il lavoro della Cgil, curato da Laura Pennacchi e Riccardo Sanna. Senza un’adeguata diagnosi della crisi nella crisi dell’Italia, il Pil nazionale rimarrà strutturalmente diverso – non solo più basso – rispetto a quello medio europeo.

Crisi di struttura dell’Italia. Sebbene la crescita del nostro Pil sia più contenuta della media europea da molti anni, la spiegazione di questo trend non ha ancora un’analisi condivisa. Gli economisti neoclassici attribuiscono la mancata crescita ai vizi della politica nazionale, all’eccesso di burocrazia, spesa pubblica e debito pubblico, per non parlare dell’evergreen mercato del lavoro e del cosiddetto cuneo fiscale; gli economisti eterodossi sottolineano come e quanto le politiche d’austerità abbiano intaccato la domanda e, quindi, il potenziale di crescita del Paese.

Le politiche europee sono i principali imputati, così come l’eccezione tedesca nel panorama mondiale e continentale: i continui avanzi correnti, unitamente al deflusso di capitali dal centro alla periferia per sostenere la domanda interna sono indicati come destabilizzanti per lo sviluppo europeo. L’avanzo corrente della Germania, in effetti, ha raggiunto nel 2015 l’8,5% del Pil, quasi 260 miliardi di euro. Quanto agli economisti strutturalisti, la loro indagine è finalizzata a scoprire cosa si celi dentro la “scatola nera” della mancata crescita dell’Italia rispetto alla media europea. Il nostro Paese cresce meno dell’Europa da ben prima della crisi del 2007, nonostante gli investimenti non fossero così contenuti.

Un’altra parte di economisti più o meno eterodossi denuncia le politiche deflazionistiche del lavoro intraprese dalla Germania, in corrispondenza della riforma del mercato del lavoro (Hartz) realizzata da Gerhard Schröder nel 2003-2004. Questa riforma avrebbe ridato competitività alla Germania, e scaricato sui Paesi della periferia l’onere del rilancio economico tedesco. E, in effetti, non poche proposte di politica economica reclamano la reflazione salariale tedesca per riequilibrare le partite correnti, anche per salvare il progetto europeo. Diversamente, non rimane che uscire dall’euro qualora ciò non accadesse.

In realtà, quello che emerge a livello europeo è una diversa impostazione di politica economica, e industriale in particolare. Sebbene il valore dell’euro-marco sia più basso del 40% di quello che dovrebbe valere, è altrettanto vero che la produzione di beni e servizi della Germania è poco sensibile alla variazione di prezzo, diversamente dalla produzione di beni e servizi di molti altri Paesi. Un aspetto fondamentale e spesso sottovalutato dalla pubblicistica, ma con delle enormi conseguenze dal lato delle politiche economiche. Il che cosa e il come si produce è un pezzo importante della spiegazione della crisi nazionale. La domanda di investimenti e la capacità di soddisfarla condizionano le dinamiche salariali, la specializzazione produttiva e la capacità-possibilità di guidare il necessario processo di ri-specilizzazione della base produttiva nazionale.

La possibilità di finanziare gli investimenti con bassi tassi di interesse delle imprese tedesche, prima e dopo la crisi del 2007, ha offerto un vantaggio significativo alle stesse imprese oligopolistiche della Germania. Sebbene gli investimenti fissi lordi registrano dei tassi di crescita più contenuti rispetto alla media europea e italiana (2000-2015), con un’inversione di tendenza a partire dal 2010, gli investimenti in macchinari ed equipaggiamenti, la parte nobile e dinamica dello sviluppo capitalistico, flettono meno dell’aggregato (Investimenti fissi lordi), mentre in rapporto al Pil manifestano dei livelli che nessun altro Paese raggiunge.

La riduzione del costo del denaro (tassi), il deflusso di capitali dal centro alla periferia per sostenere la domanda interna, la presenza di una struttura produttiva sostanzialmente fix price, hanno permesso gli investimenti necessari per qualificare e specializzare ulteriormente la manifattura tedesca e la sua area di riferimento. Per queste ragioni la più contenuta dinamica degli investimenti aggregati della Germania, anche di quella italiana, non ha interrotto la crescita del Pil. La componente capital goods e quella high tech hanno permesso la trasformazione della produzione non solo in termini fisici, ma anche di valore. Emerge la capacità delle imprese tedesche di soddisfare la domanda internazionale e nazionale di beni e servizi ad alto contenuto tecnologico. Nella misura in cui cambia il reddito disponibile, si modifica la struttura della domanda: non si consuma di più, si consumano beni diversi.

Nel bene o nel male il reddito mondiale è cambiato nel tempo, modificando la domanda dei consumatori e delle imprese. Tanto più un’impresa partecipa attivamente al mutamento tecno-economico, tanto più rimane sul mercato e concorre a rivalorizzare il capitale. La competitività della struttura produttiva tedesca rispetto a quella di altri Paesi è, principalmente, legata ai mercati di riferimento. La struttura produttiva tedesca è oligopolistica e ha elevate dimensioni di scala. In altri termini, il costo del lavoro è molto meno importante del costo del capitale. Un aspetto fondamentale per sottolineare che il salario ha un ruolo più o meno importante se ci troviamo in mercati flex price o fix price. L’eventuale svalutazione e/o deprezzamento della lira-euro sarebbe efficace nella misura in cui i mercati di riferimento cambiano: flex price e fix price fanno capo a due mercati molto diversi.

Mentre l’Italia si affidava alla concorrenza e al libero mercato, la Germania cambiava specializzazione produttiva, valorizzando l’intensità tecnologica degli investimenti e, per questa via, conseguiva dei risultati di competitività che la sola deflazione salariale non permetterebbe. La crescita del contenuto high-tecnology (h-t) del commercio internazionale non è aneddotica, ma un cambio di struttura potente. Il valore della produzione h-t cambia segno alla domanda e all’offerta. Soddisfare o meno questa domanda h-t permette di cambiare il segno agli investimenti, così come l’intera filiera di produzione interessata. Diversamente, si incorporano tecnologie negli investimenti prodotti da altri Paesi. L’output migliora, ma sempre in misura più contenuta di quanto accade nei Paesi che combinano h-t, produzione di beni strumentali, intermedi e di consumo.

L’Italia è molto brava a realizzare quello che produce. Peccato che quello che produce si trova a valle della dinamica di struttura, cioè l’economia nazionale cresce strutturalmente meno della media europea.