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Siamo usciti dalla recessione. Anzi no; forse sì. Vediamo nei prossimi mesi, sempre che le misure relative al Quantitative easing (Qe), al deprezzamento dell’euro e del petrolio, assieme all’austerità espansiva, funzionino. Questo è il dibattito corrente dei nostri giornali. Anche le istituzioni preposte all’analisi statistica, in apparenza, sembrano avallare la tesi dell’uscita dalla crisi.
Il problema non è se siamo usciti dalla crisi “tecnica”, arresto dell’arretramento del Pil, piuttosto se l’Italia è uscita dalla crisi di struttura. Sul primo punto, ovvero l’uscita dalla recessione tecnica, occorre prudenza. Non basta la riduzione del valore dell’euro sul dollaro e il deprezzamento del petrolio per invertire la tendenza.
Infatti, l’opzione ripropone la tesi che si cresce solo se si esporta di più, con un difetto: qualora tutti i paesi facessero la stessa politica qualcuno deve pur crescere di meno. Alla fine non c’è domanda aggiuntiva. La torta del Pil mondiale è solo diversamente ripartita. Siamo usciti dalla recessione? Forse sì e forse no. Dipende dalla capacità di erodere quote di mercato degli altri paesi.
Non è proprio una sana e ordinata politica economica. Di certo non è una sana e ordinata politica economica europea. Se l’Europa esce dalla crisi alla sola condizione di erodere quote di mercato di altri continenti, vuol dire che la Commissione europea non ha proprio una politica economica, se non quella della competitività marginale (costo).
Piano Juncker? Qualche istituto ha considerato anche l’impatto positivo del piano da 315 miliardi di nuovi investimenti. Le aspettative e l’effetto leva (15) fanno miracoli: 21 miliardi di euro potrebbero diventare 315, quindi “potrebbero” far crescere l’Europa di un punto di Pil. Troppe variabili e troppe aspettative. Le previsioni di crescita devono essere trattate con maggiore cautela. In realtà, quasi tutti gli istituti lo fanno. Stimano che sia possibile invertire la tendenza.
Alla fine il Qe, la svalutazione dell’euro e del petrolio qualcosa producono, ma l’uscita dalla recessione è solo un’uscita dalla recessione tecnica: arresto della contrazione del Pil, non certo una crescita del Pil. Tutti i paesi miglioreranno di qualche decimo di punto il Prodotto interno lordo, ma l’Italia e qualche altro paese dell’area euro non proprio.
Le previsioni economiche invernali della Commissione europea assegnano all’Italia un’ulteriore contrazione del Pil per il 2014 dello 0,5 per cento, cioè un peggioramento rispetto alle proiezioni autunnali del meno 0,4. L’Istat (13 febbraio) stima la crescita per il 2014 a meno 0,4 per cento, cioè nessuna vera controtendenza. Relativamente alle previsioni per il 2015 le cose non vanno meglio.
La Commissione europea stimava per l’Italia una crescita dello 0,6 per cento in autunno e continua a stimare una crescita dello 0,6 per cento in inverno. Qe, deprezzamento dell’euro, del petrolio e politica economica del governo non hanno cambiato il segno della crisi nella crisi dell’Italia. Si parla tanto del fallimento della Troika in Grecia, ma il fallimento delle lettere ad personam in versione italiana non sono andate meglio.
Uscita dalla recessione? Aspettiamo, ma il dibattito non è all’altezza della crisi di struttura che attraversa l’Italia. L’Istat ricorda che la minore crescita del 2014 è interamente attribuibile alla diminuzione del valore aggiunto dell’agricoltura e dell’industria, solo in parte compensato da quello dei servizi. Ma questo tipo di considerazioni non possono raccontare cosa si cela dietro la crisi nella crisi dell’Italia.
Riforme o non riforme, l’Italia tra il 1996 e il 2014 è crescita meno della media europea di ben 19 punti di Pil, con un’ulteriore aggravante: investiva in media più di tutti gli altri paesi e, crisi dopo crisi, aumentava il gap annuale di minore crescita del Pil rispetto alla media europea. Siamo passati da meno 0,5 punti del 2000, agli attuali 1,8 punti del 2014. Siamo usciti dalla crisi?
La crisi è da tempo incorporata nel sistema “Italia”. La situazione può essere chiarita con un esempio: se l’Europa cresce del 2 per cento e l’Italia dello 0,2, siamo o non siamo in crisi? Tecnicamente saremmo fuori dalla recessione, ma l’uscita dalla crisi proprio non si vede. E non potrebbe essere diversamente. L’Italia ha perso (per sempre) quasi il 20 per cento della propria base produttiva, mentre le cosiddette imprese esportatrici non hanno fatto meglio.
Non solo è diminuita la quota di mercato internazionale, sono diminuite anche le imprese esportatrici. Riprendendo un ottimo contributo di Nomisma e Cer – quest’ultimo presenterà il proprio rapporto alla Camera il 17 febbraio – si può osservare che è aumentata l’incidenza degli esportatori (dal 19,9 del 2008 al 21 per cento del 2012) e che, tuttavia, il risultato è figlio della riduzione del numero di esportatori meno che proporzionale rispetto a quella del totale delle imprese.
Se poi pensiamo alla contrazione della produzione di beni strumentali, la peggiore tra i paesi europei, possiamo comprendere che l’Italia ha compromesso quel vasto patrimonio di conoscenza che poteva contribuire all’uscita della crisi di struttura. Usciti dalla crisi? Forse dalla recessione, ma aspettiamo ben altri segnali. Relativamente alla crisi di struttura, dobbiamo lavorare ancora molto.