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Nonostante, occasionalmente, il presidente del Consiglio Renzi polemizzi con una generica austerità, concretamente le scelte del suo governo sono del tutto interne e coerenti con la cosiddetta “austerità flessibile”. Ben presto la politica di riduzione delle tasse iniziata in modo selettivo, con gli 80 euro per i redditi da lavoro medio bassi, si è trasformata in una politica strutturale e indifferenziata di riduzione di fisco e contributi alle imprese e di maggiore riduzione per chi ha di più (come per la Tasi). Tagliando la spesa pubblica potenziale e riducendo gli investimenti pubblici, non adottando una lotta vera per ridurre preventivamente l’evasione fiscale.
Sul lavoro, con il Jobs Act, si sono tagliati diritti e ammortizzatori sociali. Non si sostengono i ccnl, in particolare quelli pubblici, unico modo per incrementare l’insieme dei salari. Insomma, si è delegata l’occupazione e la ripresa al mercato. A imprese e finanza, anziché farlo direttamente. E le riforme fatte sono quelle indicate dalla Commissione europea (lavoro, pensioni, privatizzazioni…). Ma non ha funzionato. Oggi gli ultimi dati Istat ci consegnano l’evidenza di un’Italia che non è ripartita, che è ferma; e francamente non ci consola aver avuto ragione. La ripresa prima era difficile, poi incerta, oggi è interrotta. Forse non era vera ripresa. Un governo non dovrebbe fare i confronti con se stesso, ma con le domande e le condizioni del Paese reale.
Di fronte a tutto ciò mi meraviglio che qualcuno si meravigli che ci sia malcontento. Anche per l’Italia si pone l’imperativo di un cambiamento della politica economica. Per noi al centro dovrebbe esserci un “Piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile”. La stessa esigenza che proponemmo con il Piano del lavoro, che presentammo tre anni fa e nel quale proponevamo – è importante sottolinearlo oggi, a pochi giorni dal disastroso terremoto che si è abbattuto sull’Italia centrale – un grande programma di messa in sicurezza del territorio dal rischio sismico e idrogeologico.
Creazione diretta di lavoro
Innanzitutto occorre fare la scelta di una creazione diretta di lavoro. La lunghezza della crisi ha creato, infatti, una profonda depressione dei comportamenti economici. La distruzione di occupazione, redditi e risparmi, l'aumento dell'incertezza e della paura, tutto questo riduce la propensione ai consumi, al rischio, all'innovazione, agli investimenti, come dimostra la deflazione. Deflazione che non riequilibra le cose, ma le peggiora, rimandando anche consumi e investimenti già finanziabili. Negli anni trenta si scoprì l'importanza delle aspettative nel ciclo economico. Ma per dare una scossa alle aspettative, per rilanciare l'economia reale, occorrono certezze. Sicurezze. Non ipotesi, speranze o promesse. L'ottimismo si deve creare, dopo una recessione, non invocare. Per questo le politiche indirette (incentivi, decontribuzioni, politiche attive...) non funzionano. Perché non danno nuove certezze.
Anche i bassi interessi e la quantità accresciuta di moneta non riescono a rilanciare l'occupazione. Sono efficaci per fermare la recessione, ma non per fare la ripresa. E neanche le esportazioni possono essere determinanti, perché dipendono dall'andamento economico degli altri Paesi e dalle loro scelte politiche. Dopo una crisi così, per dare certezze, per creare aspettative e ottimismo, il sistema pubblico deve creare direttamente lavoro.
Finalizzazione delle risorse pubbliche
Solo la creazione diretta permette la finalizzazione sicura delle risorse pubbliche verso le emergenze sociali. Le politiche di incentivazione, soprattutto quelle a pioggia, rischiano inevitabilmente, dopo una crisi così, di finanziare trasformazione di contratti più che occupazione aggiuntiva. Di ridurre i costi alle imprese, che andavano comunque bene e avrebbero assunto lo stesso. Di favorire chi ha più esperienze lavorative e professionalità già formate, piuttosto che chi cerca il primo impiego. Ed è quello che sta succedendo con la decontribuzione. Per noi le risorse pubbliche devono produrre occupazione aggiuntiva verso precise figure sociali, facendo anche una politica di uguaglianza. Vanno quindi finalizzate, in primo luogo, all'occupazione femminile. Il tasso di occupazione femminile è un problema di fondo del mercato del lavoro italiano, anche prima della crisi. Abbassa il tasso di attività generale ed è particolarmente basso in buona parte del Sud.
In secondo luogo, le risorse pubbliche vanno finalizzate all'occupazione giovanile, che è il più grande spreco, per il Paese, della crescita potenziale. Tanto più grave perché i giovani italiani sono pochi. Ed è imbarazzante festeggiare un tasso di disoccupazione giovanile al 36,5%, ancor più perché sono dati di giugno, già noti, e ancor di più perché conosciamo già quelli di luglio, dove la disoccupazione giovanile è al 39,2%. La terza priorità sociale sono i disoccupati di lungo periodo, che di nuovo sono maggiormente concentrati nel Mezzogiorno.
Mobilitazione sociale e riqualificazione della spesa pubblica
Noi pensiamo a uno stock di risorse aggiuntive e straordinarie. Gestite da un'Agenzia nazionale (leggera, costruita con comandi) che distribuisce le risorse potenziali alle comunità locali in proporzione inversa al tasso di disoccupazione delle figure indicate. Per finanziare diverse forme di lavoro solo per alcune attività. Le risorse verranno poi liquidate solo di fronte a Progetti Prioritari definiti dalle istituzioni locali, ma che avranno il vincolo di essere concordati con sindacati e associazioni di impresa, attivando la partecipazione di associazioni e centri culturali, delle rappresentanze delle professioni, delle università, del mondo ambientale. Con una idea di pianificazione che si muove dall'alto verso il basso, ma anche dal basso verso l'alto.
Una pianificazione partecipata socialmente, culturalmente e istituzionalmente. I Progetti Prioritari dovrebbero, poi, riorientare parte delle risorse pubbliche già esistenti (dai fondi ordinari a quelli europei). Oltre che essere un riferimento per le politiche ordinarie (dal servizio civile alla Garanzia giovani, alle politiche attive). E dovrebbero veicolare ulteriori risorse (da alcune linee di investimento della Cassa depositi e prestiti e dei Fondi di previdenza complementare; da una parte delle risorse delle fondazioni bancarie e del sistema bilaterale). Questo creerebbe una vera e propria mobilitazione nazionale, moltiplicando risorse, energie, aspettative, progettualità. Verso programmi di certezza occupazionale.
Nuova domanda e nuova offerta
L'idea di fondo è, comunque, creare con certezza nuova domanda: nuovi posti di lavoro, nuova massa salariale, nuovi risparmi e nuovi consumi. Per questa strada si sosterrebbero, davvero, nuovi investimenti privati e nuova occupazione ulteriore. E nuove entrate per lo Stato. Ma questa nuova domanda deve essere orientata. In due direzioni. La prima verso bisogni sociali e di tutela ambientale oggi largamente insoddisfatti. Questo non solo per rafforzare la comprensione e la legittimazione del Piano nel Paese. Ma anche per stimolare nuovi consumi collettivi, nuove professionalità, nuove produzioni, nuove attività. La seconda è quella di rafforzare politiche di ricerca e di innovazione industriale, qualificando settori economici di base, come l'agricoltura, il turismo, l'edilizia. Una nuova domanda, quindi, per creare nuova offerta. Nuova offerta non solo in quanto aggiuntiva, ma anche come anticipazione dell'offerta e della produzione del futuro.
Contenuti del Piano
Concretamente noi proponiamo la creazione diretta di circa 600 mila posti di lavoro tra assunzioni pubbliche e di mercato, a tempo indeterminato o a progetto. Innanzitutto, l'assunzione per concorso di 20 mila ricercatori negli enti pubblici di ricerca e nelle università. I concorsi dovranno essere riservati al 50% alle tre figure sociali indicate. Dovranno essere impegnati su programmi di ricerca in due aree principali: energie rinnovabili e riutilizzo e creazioni di materiali. Questa scelta sarebbe un forte stimolo per molti settori industriali. Poi assunzioni di 100 mila dipendenti nelle amministrazioni pubbliche. Sempre al 50% riservate alle figure sociali prioritarie. Qui vale la pena di specificare che, concettualmente, queste assunzioni vanno distinte, perché finanziate in modo straordinario e aggiuntivo, dalle questioni ordinarie degli organici e del precariato storico. Certo, darebbero un sollievo alla sottoccupazione degli organici pubblici e permetterebbero la partecipazione dei precari ai concorsi nel restante 50%.
Le aree principali di intervento dovrebbero essere: l'integrazione digitale di tutta la pubblica amministrazione, l'aumento della diagnostica sanitaria pubblica, progetti contro la dispersione scolastica. Le ricadute sarebbero nel settore informatico, nel biomedicale e nell'editoria. Poi la definizione di assunzioni per 300 mila persone in contratti a progetto per tre anni più tre. Inquadrati nei contratti più favorevoli, con certificazione professionale e titoli per i concorsi pubblici successivi. Settori dovrebbero essere innanzitutto la messa in sicurezza del territorio (dal rischio sismico e idrogeologico) e la sua cura e manutenzione ordinaria. E poi attività sociali aggiuntive per l'infanzia, la non autosufficienza, l'emarginazione, l'educazione degli adulti. Oltreché la ristrutturazione sociale ed energetica delle abitazioni. Tutto ciò avrebbe forti ricadute sull'edilizia, sull'agricoltura, sulla cooperazione sociale e culturale.
Non solo: ulteriori 100 mila contratti a progetto, solo triennali, alle stesse condizioni di certificazione e titoli. Avendo come campi di intervento i beni culturali e archeologici, l'alfabetizzazione digitale per tutti, la lingua italiana per i migranti. Tutto ciò avrebbe ricadute sul turismo e sulla produzione di software. Ma anche sulla qualità della vita civile. Infine, 60 mila occupati in nuove cooperative che abbiano almeno il 50% di soci delle figure prioritarie. Che applichino i contratti nazionali di lavoro, con facilitazioni amministrative e di credito alla loro creazione, un bonus di liquidità di 20 mila euro per ogni componente delle figure prioritarie. Dovranno essere impegnate nell'agricoltura biologica, nell'agriturismo, oltreché nella produzione culturale e nell'assistenza familiare. Avendo ricadute principalmente nel settore agricolo e nei servizi alle famiglie. Da ultimo, 20 mila nuovi occupati in nuove imprese (sempre almeno al 50% nei soggetti prioritari e con le stesse facilitazioni e bonus delle cooperative). Dovrebbero essere indirizzate al settore del risparmio e dell'efficienza energetica e alla creazione di app. Sarebbero, di per se stesse, nuove attività. Ovviamente, le aree di intervento e i settori stimolati vanno presi come una prima indicazione che vuole esplicitare il senso di una proposta generale.
Effetti economico-sociali e confronto con le previsioni del governo
600 mila posti di lavoro creati direttamente, dunque 520 mila pubblici e 80 mila di mercato. 200 mila a tempo indeterminato e 400 mila a progetto, ma con stipendi dignitosi, contributi previdenziali e prospettive possibili. Questo piano di assunzioni dirette creerebbe ulteriori 768 mila posti di lavoro nei settori di mercato (per gli stimoli diretti e per quelli indiretti dovuti all’aumento dei salari e dei consumi). Per un totale di 1.368.000 (circa) di posti di lavoro aggiuntivi in un triennio, di cui la maggior parte nei primi due anni. Con un aumento del Pil di 5,7 punti in tre anni.
Il calcolo su questo impatto è stato determinato utilizzando lo scenario base dei prossimi anni del Cer (assai più realistico di quello ufficiale del governo) e con un moltiplicatore, quello definito sempre dal Cer in occasione della presentazione del Piano del lavoro, scientificamente prudente. Viene, infatti, calcolato un’iniziale schiacciamento delle esportazioni, dovuto all’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto, poi recuperato dalla mobilitazione degli investimenti privati. Ma quello che i numeri non possono dire è l’effetto sociale di tale scelta. L’occupazione aggiuntiva sarebbe finalizzata la dove c’è il massimo bisogno. Riducendo le differenze territoriali (verso il Sud, principalmente, ma anche verso tutte le aree a più alta disoccupazione), concentrandosi sull’occupazione femminile (stimolando, strutturalmente, l’offerta di lavoro delle donne); dimezzando, almeno, la disoccupazione giovanile.
Vediamo, nella tabella che segue, il confronto con le previsioni del governo per il triennio 2017-2019. Con una premessa: le previsioni del governo sono sicuramente sovrastimate rispetto alle attuali tendenze reali. Forse con tanto parlare di ottimismo sono diventati degli inguaribili ottimisti.
Possiamo notare alcuni dati. La grande differenza sugli investimenti e sul tasso di disoccupazione. Pur con un risultato sul debito persino migliore nella media del triennio. Certo calerebbe l’avanzo primario. Ma è questo il punto dei punti. Con l’avanzo primario previsto dal governo, discendente dal Patto di stabilità europeo e dall’agenda Monti, ci terremo, sostanzialmente, l’attuale disoccupazione.
La finanziabilità è un problema politico
Il nostro Piano costerebbe 10 miliardi e 150 milioni di euro all’anno, dei quali due miliardi e 424 milioni annui strutturali. Per un totale di 30 miliardi e 450 milioni circa in un triennio. Una cifra molto simile a quella già spesa, nel triennio 2015-2017, dal governo per gli sgravi contributivi, la riduzione strutturale dell’Irap e l’abolizione della Tasi solo sulle case di grande valore. Per queste tre misure il governo ha speso circa 34 miliardi in tre anni, di cui 7 strutturali. Con ben altri risultati sul piano occupazionale. Siamo, quindi, dentro ipotesi del tutto ragionevoli, la cui finanziabilità è essenzialmente una questione di scelte politiche.
Si potrebbe aprire una vera e propria vertenza con la Commissione europea: chiedendo l’esclusione degli investimenti pubblici, almeno per obiettivi prioritari, dal Patto di stabilità; oppure la sospensione del Patto stesso per almeno tre anni. Si potrebbe introdurre un’imposta sulle grandi ricchezze, applicata con aliquote progressive sui patrimoni superiori agli 800 mila euro. Porterebbe circa 20 miliardi l’anno di entrate aggiuntive. Si potrebbe introdurre la trasmissione obbligatoria, via app, delle fatture Iva; che produrrebbe, secondo il Nens, una riduzione dell’evasione fiscale di diverse decine di miliardi all’anno. Noi offriamo la proposta di questo Piano al governo, al Parlamento, al Paese. Certo bisogna convincersi che il mercato, da solo, non può rispondere a una crisi di mercato. Certo bisogna ragionare nei termini di uno Stato, di un sistema pubblico, occupatore e innovatore.
Non ci dica, quindi, il governo che sono proposte impossibili. Nella storia le “proposte impossibili” hanno sempre funzionato. Se volessimo andare lontano si potrebbe utilizzare il New Deal di Roosevelt o il Piano Beveridge inglese. Stando in tempi più recenti, si potrebbe citare la legge 285 del 1978, che creò in Italia 840 mila posti di lavoro giovanili in tre anni. Chiediamo quindi al governo di valutare questa proposta in relazione alla legge di bilancio.
Danilo Barbi è segretario confederale della Cgil