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Viene presentato oggi (17 maggio) a Roma, alle ore 16, nella sede nazionale della Cgil, il volume “Il lavoro dopo il Novecento. Da produttori ad attori sociali”. Trentacinque contributi provenienti dal mondo universitario, sindacale e, in misura minore, imprenditoriale. All’appuntamento, che verrà trasmesso in diretta su RadioArticolo1, parteciperanno, oltre ai curatori Alessio Gramolati e Giovanni Mari, Vittorio Angiolini (Università di Milano), Iginio Ariemma (Fondazione Di Vittorio), Susanna Camusso, segretario generale della Cgil. Modererà i lavori Marco Panara, giornalista di Repubblica
Nel 2014 la Firenze University Press ha pubblicato, per gentile concessione dei diritti da parte dell’editore Feltrinelli, una nuova edizione della “Città del lavoro” di Bruno Trentin, con l’introduzione di Iginio Ariemma. L’opera pubblicata è ormai introvabile da anni. La nuova edizione fu discussa in un seminario di studi che si svolse in quell’anno proprio nell’ateneo del capoluogo toscano. All’incontro, parteciparono I. Ariemma, R. Del Punta, C. Galli, A. Gramolati, G. Mari, G. Sacconi, S. Sciarra, C. Trigilia e fu concluso da S. Camusso. L’idea del volume “Il lavoro dopo il Novecento. Da produttori ad attori sociali. La città del lavoro di Bruno Trentin per un’altra sinistra”, di A. Gramolati e G. Mari (Firenze University Press 2016), che sarà presentato quest’oggi (17 maggio) a Roma nella sede nazionale della Cgil, nacque in occasione di quell’evento.
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Il volume raccoglie 35 contributi sulla “Città del lavoro”. I curatori hanno suddiviso i contributi in cinque parti, che corrispondono ad altrettanti ambiti problematici cui i testi possono essere ascritti. Alle collaborazioni sono state invitate persone diverse per generazioni, esperienza e formazione. Il mondo universitario e quello sindacale coprono in maniera maggioritaria la provenienza degli autori, ma sono presenti anche contributi di altre esperienze, come quella imprenditoriale. Il risultato ci sembra rappresentativo e anche ricco di approfondimenti e illustrazioni dei temi e dei problemi affrontati nel principale scritto di Bruno Trentin. I curatori hanno dedicato il volume a Iginio Ariemma, senza la cui attività svolta anche nome della Fondazione Giuseppe Di Vittorio, la conoscenza e la memoria di Bruno Trentin sarebbero incommensurabilmente inferiori.
La prima domanda che sorge è: qual è il fondamentale significato attribuibile alla “Città del lavoro” alla luce dei numerosi interventi che compongono il volume? Tale significato è rilevabile mediante espressioni assai efficaci, anche se oggi poco impiegate, come “rottura epistemologica” o “rivoluzione paradigmatica”, che Trentin introduce con chiarezza ed efficacia nel discorso teorico e nella concezione della pratica della sinistra novecentesca. La sottolineatura di questa radicale ridescrizione dell’impostazione categoriale del progetto e dell’azione politica e sindacale della sinistra “vicente” del secolo scorso è indispensabile, sia per apprezzare l’originalità della riflessione di Trentin, non limitata a singole e specifiche proposte, sia – e forse soprattutto – per capirne la complessità culturale e quindi l’implementazione non semplice del suo insegnamento.
Trentin ha vissuto, spesso in veste di protagonista, l’intera esperienza che va dalla Resistenza e dalla Ricostruzione fino alla fine del fordismo e alla globalizzazione, e la “Città del lavoro” si colloca esattamente nel trapasso di epoca che per l’Italia e l’Europa rappresentano gli anni ottanta e novanta del secolo scorso. Solo una riflessione capace di rimettere in discussione, senza niente “rottamare”, un’intera vicenda teorica e politica, poteva ambire ad avanzare una proposta per il XXI secolo capace di avere insieme il “coraggio dell’utopia” e la ricchezza di un’esperienza, fatta di grandi errori e di grandi vittorie, che affondava le radici nell’Ottocento e che si presentava come largamente inadeguata.
Il punto di vista da cui Trentin si pone, in maniera “unilaterale”, come lui stesso rivendica, è quello di chi il lavoro svolge, prima di tutti il lavoratore subordinato, per arrivare da questa prospettiva a una proposta e a un progetto, dal valore di civiltà, per l’intera società. La “rottura epistemologica” nasce innanzitutto dall’esigenza di capire qualcosa di “inedito” che stava accadendo al lavoro, e che il vecchio discorso, in cui ancora troppi rimanevano invischiati, impediva di afferrare. Si tratta dell’avvento di quello che Trentin chiama il “lavoro concreto”, che la crisi del taylorismo e la fine del fordismo fanno emergere, e che occupa la scena al posto della “merce lavoro” o del “lavoro astratto” (di Marx). E il “lavoro concreto”, fatto di “responsabilità”, “conoscenza”, “creatività”, “educazione” e “iniziativa”, ripropone la “persona” nel lavoro, ignorata e auspicabilmente ridotta a “corpo” dal taylorismo.
Questo è ciò che prima di tutto Trentin sottolinea. Il riconoscimento della “persona” nel lavoro “concreto” subordinato rappresenta una “contraddizione inedita”, precedentemente risolta attraverso la negazione di ciò che la cultura moderna lega alla persona: la sua libertà e autonomia. Quindi il “lavoro concreto”, e la “persona” da questo riproposta, evocano in maniera e forza “inedite” il riconoscimento dei “diritti formali” che la moderna società riconosce a tutti i liberi cittadini, ancorché con l’esclusione dei luoghi di lavoro, e indicano al sindacato la “nuova frontiera dei diritti” che esso “deve occupare”. Questo, schematicamente, il nucleo di quel punto di vista “unilaterale” che si diceva. Appare evidente, tra l’altro, come a questo punto di vista si ricolleghi pienamente la recente iniziativa per una “Carta dei diritti universali del lavoro” promossa dalla Cgil.
Meno di venti anni ci separano dalla prima edizione della “Città del lavoro”. Per un’opera che per molti versi è un bilancio storico e teorico della sinistra politica e sindacale del Novecento non sono molti. Tuttavia, di fronte alle continue trasformazioni introdotte nel modo di lavorare e di produrre dalla rivoluzione informatica, ciò che va sotto il nome di “terza rivoluzione industriale”, di cui l’Industria 4.0 (per alcuni antesignana di una “quarta” rivoluzione) si presenta oggi come la punta più avanzata e innovativa, non si può sfuggire all’interrogativo circa la validità attuale delle analisi e delle intuizioni di Trentin. Se, cioè, il lavoro “concreto”, attraverso i diritti e la conquista di “nuovi spazi di libertà” nel lavoro e nella società, pervenga a porsi socialmente come lavoro “liberato”, o per dirla con le parole di Trentin, come “lavoro scelto”.
Siamo, infatti, in un tempo sempre nuovo e spesso inedito, in cui si sostiene che, in linea di principio, qualsiasi attività umana potrà essere svolta e sostituita da qualche robot o intelligenza artificiale. Insomma, e schematicamente, che cosa dobbiamo ritenere più probabile nel nostro futuro, una società del “post-lavoro” oppure una società della “libertà nel lavoro”, e quindi più democratica e con sempre maggiori e uguali opportunità per tutti? Trentin non avrebbe esitazione a rispondere, anche se legherebbe la risposta alla capacità politica e sindacale di costruire tale risposta.
Sappiamo che la rivoluzione delle macchine e l’automazione in corso, a parità di numero di ore settimanali di lavoro, non ricreerà tutti i posti di lavoro che distrugge. Ma sappiamo anche che l’automazione tende a ricostituire la manifattura nei paesi da cui era stata dislocata e a creare nuovi distretti e reti di competenze, imprese e istruzione più vicine alla domanda. Sappiamo anche che la manifattura Usa, che produce più di quella cinese col 10% degli occupati, ha una disoccupazione circa al 5%. Ma soprattutto che se i pavimenti delle imprese manifatturiere sono quasi privi di persone che lavorano, pieni sono gli uffici e, soprattutto, che la filiera della produzione e delle vendite esterna alle imprese ingloba molto lavoro. Che nuovi lavori sono ovviamente creati dalla produzione, manutenzione, vendita e assistenza della tecnologia che distrugge lavori tradizionali, mentre nuova tecnologia, come le stampanti 3D, tendono a innovare lavori e vocazioni tradizionali, come la fabbricazione artigianale di oggetti. Senza parlare dei posti di lavoro nell’istruzione, nella comunicazione e nell’informazione. Quanto alla difesa o alla creazione del welfare, coincidono con la creazione di lavoro.
A questo punto si deve ricordare sia l’intuizione di Trentin relativa al superamento delle distinzioni poste da H. Arendt tra corpo, lavoro e azione, che le filiere della società della conoscenza attenuano o fanno praticamente scomparire, rendendo subordinato tanto lavoro autonomo e più autonomo quello tradizionalmente subordinato, rendendo meno stretto il nesso tra lavoro e salario, sia tutte le nuove forme di lavoro condiviso e di lavoro volontario. Manca ancora, invece, accanto alla consapevolezza delle trasformazioni del lavoro, quella relativa alla necessità di una nuova idea di ozio che sostituisca il “tempo libero” fordista in una visione di sviluppo e autorealizzazione individuale che non si compia solo nel “lavoro scelto”. Un’idea indispensabile anche per contrastare l’invasione del tempo di vita da parte del tempo di lavoro, favorita e talvolta imposta dalla “cunsumerizzazione” dei divice informatici a uso personale.
Tra i “nuovi diritti” che Trentin pone in evidenza vi è quello alla formazione e all’aggiornamento per tutta la vita, anche al fine della mobilità che l’economia flessibile impone. Per certi versi questo diritto appare come il più importante tra quelli che Trentin rivendica per il lavoro. Un lavoro di cui rileva, come ribadisce nella Lectio del 2004, il fondamentale e nuovo rapporto con la conoscenza. A questo proposito, Unionamere ha recentemente pubblicato una stima delle nuove occupazioni da qui al 2020, da cui si evince il peso crescente e nettamente maggioritario del lavoro qualificato: 2,5 milioni di posto di lavoro, di cui il 31% del totale dovranno essere per laureati e il 33% per diplomati (il 41% con un profilo di “molto qualificato” e solo il 27% “non qualificato”). Insomma, la questione della disoccupazione è un problema reale, ma è reale anche l’uso strumentale e ideologico di essa come arma di ricatto ai fini di una maggiore disponibilità personale e salariale del lavoro dipendente. Disponibilità che non si cerca di ottenere solo con la riduzione di diritti e tutele.
Quanto alla riproposizione della persona nel lavoro, essa è un fatto ormai riconosciuto universalmente. Nel 2014 anche Federmeccanica lo ha sottolineato nei suoi documenti ufficiali. Certo non basta riconoscere o postulare il “coinvolgimento” della persona perché ciò accada in maniera attiva e in nome di un diritto, e non solo per una produttività o responsabilità subordinata ai fini della qualità degli oggetti prodotti. Laddove intervengono le idee di “partecipazione” e “codeterminazione” avanzate da Trentin. Esistono piuttosto nuovi problemi posti delle nuove frontiere della tecnologia digitale. La “fabbrica intelligente” si presenta anche con strutture molto verticistiche, che ricordano il fordismo, e non solo trasversali o a cloud. In ogni caso la comunicazione tra i vertici dell’impresa e il piano dell’esecuzione e produzione richiede una costante comunicazione che è affidata a piattaforme, e qui si pone la questione delle policy e delle interazioni degli accessi. Questa comunicazione di dati, alimentata dai depositry dei big data esterni all’impresa, determina un flusso di indicazioni e informazioni che costituisce il vero medium di comando, anche al di là del team. Si tratta di un flusso che è in rete, capace di connettere costantemente produzione, catena delle forniture e della vendita. In questo modo la subordinazione accade rispetto a un potere immateriale.
Questo può anche ammettere, e in molti casi (per la qualità) richiede, immissione di informazione da parte delle persone. Tuttavia, l’Internet delle cose tende a togliere responsabilità ai produttori e a togliere loro gran parte dei rapporti diretti con gli oggetti della produzione, perché i dati della produzione di qualità (errori e successi) vengono incorporati direttamente nell’hardware che li produce. Si tratta di situazioni nuove che impongono precisazioni e nuove ricerche che comunque non contraddicono l’impostazione e le novità concettuali introdotte dall’analisi di Trentin. Gli spazi oggettivi che la “contraddizione inedita” posta dalla “persona” nel lavoro “concreto” costituiscono una “sfida” decisiva per il sindacato e il terreno fondamentale su cui, come ricordava Trentin, occorre impedire la “rivoluzione passiva” di chi tali spazi aperti indispensabili per una società più avanzata intende chiudere.
Alessio Gramolati è responsabile del coordinamento delle politiche industriali della Cgil nazionale
Giovanni Mari è professore di Storia della filosofia all’Università degli studi di Firenze