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I sindacati sono fortemente preoccupati per i probabili effetti collaterali che l’introduzione del salario minimo orario legale, diverso da quanto stabilito nei contratti collettivi nazionali di lavoro, potrebbe comportare. Così Cgil, Cisl e Uil oggi (12 marzo) in audizione in commissione Lavoro al Senato. “Una norma di legge che si proponga di fissare un salario minimo orario legale per tutti i lavoratori dipendenti deve innanzitutto stabilire il valore legale dei trattamenti economici complessivi previsti dai Contratti collettivi nazionali di lavoro”, si legge nella memoria consegnata ai parlamentari.
Il motivo di questa preoccupazione è chiaro: l’introduzione del salario minimo “potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti, rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele dei lavoratori. Un rischio che si fa maggiormente concreto stante la diffusa struttura di piccole e medie imprese presenti nel tessuto economico italiano”. Insomma: un numero elevato di aziende potrebbe cogliere questa occasione per disapplicare il contratto di riferimento e adottare il salario minimo, rimanendo in questo modo perfettamente in un ambito di legalità. Ciò comporterebbe per i sindacati confederali “un fortissimo disincentivo al rinnovo di alcuni contratti nazionali relativi a settori ad alta intensità lavorativa, a basso valore aggiunto e a forte compressione dei costi”.
Naturalmente nel nostro paese una questione salariale esiste, ma per aggredirla occorre affrontare il tema partendo dalla realtà specifica italiana che, a differenza di altri paesi europei, garantisce ancora una fortissima copertura dei contratti collettivi di lavoro: “I campi di applicazione di tutti i Ccnl ci permettono di affermare che ogni attività economica e ogni lavoratore subordinato è coperto oggi da un Ccnl di riferimento e che anche i lavoratori a termine e in somministrazione godono delle stesse tutele retributive degli altri lavoratori subordinati”, si legge nella memoria. La vera questione, semmai, è costituita “dalla proliferazione contrattuale, la diffusione di contratti poco e per nulla rappresentativi e in dumping (anche dal punto di vista retributivo) rispetto ai contratti stipulati dalle parti sociali maggiormente rappresentative. Questo è il vero problema, insieme alla evasione contrattuale e al crescente sommerso in molte attività, che affligge la regolazione salariale in Italia”.
Le quote di lavoratori che le statistiche e gli studi valutano come non coperti dalla contrattazione salariale nazionale (10-15% della popolazione lavorativa), fanno notare le tre confederazioni, sono, quindi, “legate all’eccessiva diffusione del lavoro irregolare, di forme di sottoccupazione (basti pensare al fenomeno delle false cooperative che con regolamenti aziendali violano i Ccnl o delle false partite Iva che la recente riforma fiscale “flat tax” porterà a diffondersi) e di part-time involontari che l’introduzione del salario minimo legale non porterà a mitigare”.
Importante dunque l’aspetto “repressivo”: per le tre sigle è necessario mettere in atto “controlli più puntuali e interventi correttivi per ridurre le fasce di sfruttamento, agendo contemporaneamente contro il fenomeno dell’evasione contrattuale”. E a questo proposito ribadiscono la richiesta di implementare gli investimenti e il numero degli ispettori, che oggi sono circa 4 mila a fronte di 1,8 milioni di aziende private attive nel Paese. “Ogni ispettore – notano – dovrebbe controllare mediamente 456 aziende in un anno”. Un rapporto “che rende impossibile fare controlli a tappeto”.
Per Cgil, Cisl e Uil, dunque, la strada da intraprendere dovrebbe essere un’altra: bisogna cioè partire dall’attribuire valore legale ai trattamenti economici già previsti dai contratti nazionali di lavoro; in questo modo se ne “può aumentare l’efficacia e consentire l’adozione di adeguate sanzioni nei confronti di chiunque non li rispetti”.
Altro nodo importante è quello che riguarda la natura del salario e della retribuzione. Un salario minimo legale così concepito difficilmente riuscirebbe a garantire quel “trattamento economico complessivo” che la contrattazione collettiva ha ormai sancito in ogni comparto lavorativo. Quando sono inserite in un contratto, infatti, le retribuzioni dei lavoratori non sono costituite solo dai minimi orari, ma sono composte da più voci retributive: tredicesima e in alcuni casi quattordicesima mensilità, livelli di inquadramento, maggiorazioni per prestazioni orarie o di altro tipo, ferie, indennità, e altre voci e premi retributivi. Non solo: in un contratto a essere regolato non è solo il salario, ma anche tutta una serie di garanzie normative conquistate negli anni: tutele per malattia, maternità e infortuni superiori a quelle previste dalla legge; welfare previdenziale e sanitario. In sostanza: l’effettiva retribuzione oraria di un lavoratore coperto da Ccnl è ben superiore al semplice minimo tabellare.