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Dal terremoto dell'Aquila fino alla condizione di Napoli. Dalla memoria storica del paese - con riferimento alle stragi nazifasciste - alla vita degli operai di oggi, al tempo della crisi economica. E poi l'anniversario dei 150 anni dall'Unità di Italia che cade nel 2011, celebrato nel capodopera di Martone Noi credevamo. A fine anno, possiamo dire che i maggiori spunti di cinema sociale e impegnato degli ultimi dodici mesi vengono proprio dall'Italia: una manciata di pellicole, in netta minoranza rispetto alle grandi produzioni, che sono ancora capaci di provocare le coscienze alimentare il fuoco del dibattito. Discussioni ovviamente non riconciliate, come si addice alla storia del nostro Stato, dove i dubbi e i punti interrogativi sono più stimolanti delle facili risposte. E sullo sfondo naturalmente restano i registi europei e americani, capaci da parte loro di sollevare questioni non meno spinose e complesse.
Draquila vince il premio ideale della maggiore polemica del 2010. Il documentario di Sabina Guzzanti, che smaschera la "cricca" di speculatori sul terremoto in Abruzzo, non è piaciuto al ministro dei Beni culturali Bondi. Attacchi più svariati sono arrivati da tutto il centrodestra, a partire dalla presentazione al Festival di Cannes, dove il film - come sempre si dice - avrebbe dato "una cattiva immagine dell'Italia". In realtà a livello cinematografico, ispirandosi a Michael Moore, Guzzanti offre un affresco dall'Aquila post-sisma, dove la tragedia diventa una macchina elettorale, incombe l'ombra della new town e i cittadini colpiti sono costretti in case di plastica, come da "miracolo" berlusconiano. La metafora del titolo allude al paesaggio apocalittico della città distrutta dove, come nelle storie di vampiri, i governanti al potere "succhiano il sangue" delle persone colpite dalla disgrazia.
Ma l'Aquila non è l'unica città problematica, quindi meritevole di attenzione. L'amore buio di Antonio Capuano ci ricorda che c'è anche Napoli: qui si svolge una vicenda di ordinaria criminalità, dove un ragazzo dei quartieri poveri violenta una giovane benestante e inizia il ravvedimento dietro le sbarre, attraverso uno scambio epistolare con la vittima. Rielaborando un episodio di cronaca realmente accaduto, il cineasta conferma la sensibilità particolare nel ricreare la realtà attraverso l'artificio. Servendosi di diverse forme espressive, come il teatro, la poesia e la musica napoletana, racconta una storia profondamente legata alla città, pasoliniana, che si esprime in dialetto. Capace di rendere memorabile - tra le altre - la ripresa in cui la protagonista Irene, chiusa nella sua buona educazione, visita per la prima volta il centro storico di Napoli sotto una pioggia torrenziale.
La nostra vita di Daniele Luchetti conquista Cannes, con il premio per migliore attore ad Elio Germano (ex aequo con Javier Bardem): interpreta un operaio edile che, dopo la morte della moglie, deve andare avanti da solo con i due figli piccoli. Nel frattempo due film molto diversi, entrambi apprezzati all'unanimità, raccontano la Storia italiana: da una parte c'è L'uomo che verrà, rievocazione naturalistica della strage di Marzabotto (29 settembre - 5 ottobre 1944) compiuta dai nazifascisti. Il regista Giorgio Diritti, che ha un rapporto privilegiato con la Natura e la capacità particolare di inserire le figure nel paesaggio, ricostruisce l'orrore del conflitto a modo suo: mostrando le devastazioni del regime sui corpi e la natura, ricordando senza retorica i fatti delle colline emiliane.
Il film di Mario Martone, Noi credevamo, merita un discorso a parte. Raccontando il Risorgimento dagli occhi della gente comune, i piccoli patrioti che agiscono nella Storia, questo riesce nel miracolo di mettere tutti d'accordo. Uscito inizialmente in poche copie, si affida al passaparola e guadagna file di pubblico, sale piene per una pellicola lunga e complessa. Se l'afflusso di spettatori non è un metro di giudizio assoluto, per una volta l'applauso generale significa davvero qualcosa. Il film più bello dell'anno lancia una serie di allusioni sull'attualità, la politica e la società italiana.
Il cinema europeo, dicevamo. Anche nell'arco del 2010 - limitandosi alle poche uscite italiane - ha messo sul piatto molti nodi sociali. L'anno è iniziato con Welcome, bellissimo film del francese Philippe Lioret, sul tema dell'integrazione: la storia dell'insegnante di nuoto di Calais, che dà lezioni al giovane curdo per attraversare la Manica e ricongiungersi con la ragazza amata, è scritta, diretta e recitata bene. Imparare a nuotare è la difficoltà degli Stati occidentali a convivere con gli altri, confrontarsi con la diversità. In occasione del Clandestino Day di Carta (venerdì 24 settembre), Welcome è stato proiettato e discusso in molte scuole italiane.
Sempre a inizio anno, è tornato in Italia il regista inglese più militante in assoluto: Ken Loach ha firmato Il mio amico Eric. E' la storia di un operaio inglese fallito e alcolizzato che vede l'apparizione dell'ex attaccante del Manchester United, Eric Cantona, sempre pronto a dispensare consigli e suggerire scelte di vita. Pur frequentando i territori della commedia, al solito Loach conferma la sua peculiarità: quella di dipingere la realtà, concentrarsi sulla parte proletaria della società e ricrearne le condizioni, senza addolcirle. La sbornia, il divorzio, la microcriminalità sono sempre dietro l'angolo. Anche se lo sguardo è partecipe e prende posizione, non c'è bisogno di "migliorare le cose", più onesto e diretto mostrarle come sono. Loach tornerà nel 2011 con Route Irish, raccontando la storia drammatica di due guardie private che lavorano per la sicurezza in Iraq.
Un'altra pietra miliare dell'annata arriva sempre dalla Francia e si chiama Uomini di Dio. Il film di Xavier Beauvois, Gran premio della giuria al Festival di Cannes, ripercorre un tragico episodio del 1996: il massacro di otto monaci francesi, che vivevano sui monti del Maghreb in Algeria, a opera dei terroristi islamici in seguito dell'escalation di tensione nel paese. La particolarità, però, è che nella rilettura del regista i protagonisti diventano "preti laici": dalla quotidianità all'incontro con il terrorismo, ne viene mostrato rigorosamente il lato umano, non quello religioso. Se da una parte vengono riprodotti i riti cristiana, dall'altra a prevalere è sempre il corpo e il cervello: tutto lo spazio è per i volti dei monaci, le loro azioni e riflessioni. L'opera in originale si intitola Des Hommes et des dieux, ma in Italia il titolo viene storpiato in senso monoteista: in ogni caso, resta la riflessione generale sulla convivenza e sulla speranza di creare una "babele" delle religioni, minacciata dall'ombra della violenza. In una delle sequenze migliori, i monaci stessi invitano a non generalizzare sul terrorismo islamico, rivolgendo il saluto "Insciallah" ai cittadini musulmani.
Non poteva mancare l'Iran. Presenza fissa sulle cronache internazionali, soprattutto con il caso Sakineh, dal regime di Ahmadinejad arriva il film Donne senza uomini di Shirin Neshat, molto apprezzato al Festival di Venezia. Questa è un'opera corale ambientata a Teheran nel 1953, girata in Europa con interpreti iraniani: le storie di alcune ragazze, vittime di società e impostazione mentale maschilista come dirette conseguenze del governo dittatoriale. Parlando del passato per alludere al presente, la pellicola - con i suoi pregi e difetti - non teme neanche di virare sul surreale, sulla costruzione del quadro visivo, coltivando l'ambito cinematografico insieme a quello più strettamente sociale.
Infine gli Stati Uniti. Complessivamente meno impegnata e più spettacolare, la produzione americana va segnalata almeno per due film: Invictus di Clint Eastwood, che racconta la vittoria del Sudafrica nella Coppa del mondo di rugby (1995), un passo decisivo per superare la segregazione tra bianchi e neri. Lo fa attraverso due punti di vista: i protagonisti della squadra e il presidente, Nelson Mandela (un memorabile Morgan Freeman), che ha appena abolito l'apartheid e adesso deve superare effettivamente il razzismo. L'altro è The social network: la pellicola di David Fincher è il numero uno dell'annata Usa. Non si può dire propriamente "sociale", ma non importa: perchè racconta la storia di Mark Zuckerberg, la creazione di Facebook, le cause selvagge intentate dai suoi amici. L'uomo dell'anno di Time è una figura controversa, un giovane capitalista sfrenato che fa riflettere sulla nascita di un'azienda, sull'arricchimento personale che coincide con la distruzione dei rapporti umani e del rispetto verso l'altro.
Il film sociale di Natale è We want sex, ne abbiamo parlato in separata sede.