PHOTO
Il cinema italiano del Novecento ha avuto un rapporto privilegiato con il lavoro. Nell'arco del secolo scorso, infatti, alcuni registi hanno messo le condizioni dei lavoratori al centro della loro opera, con l'obiettivo esplicito della denuncia e del miglioramento sociale. Altri hanno trattato il tema in modo implicito, lasciandolo più in filigrana, ma inseguendo lo stesso risultato: raccontare sul grande schermo la situazione della classe operaia, la vita quotidiana e la sofferenza, insieme alla lotta costante per un futuro dignitoso.
Il lavoro al cinema esplode dopo la seconda guerra mondiale, con gli autori neorealisti impegnati a ricostruire la realtà; ci sono cineasti che dedicano la loro filmografia a questo tema, come Pietro Germi che gira Il ferroviere (1956). Il suo film più famoso e discusso - anche a sinistra - racconta la storia del macchinista Andrea Marcocci (lo stesso regista), simbolo dei proletari nell'Italia del dopoguerra. E' un intreccio forte che lascia parlare i sentimenti, sfiorando problemi vecchi e nuovi: dall'alienazione sul lavoro, con le sue conseguenze come l'alcolismo, fino alla protesta sindacale che culmina nella scena dello sciopero, respinto dal protagonista.
Poco dopo esce un altro film centrale, Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti. Tre contadini lucani si trasferiscono a Milano per trovare lavoro: Rocco in una lavanderia, Ciro nella fabbrica dell'Alfa Romeo, Simone prova il mondo della boxe. La drammatica storia di disgregazione famigliare in realtà parla dei movimenti migratori nel nostro paese: i lavoratori del Sud cercano fortuna a Nord con esiti tragici, la diseguaglianza colpisce anche la famiglia e gli affetti, la questione meridionale è più forte che mai.
Ma - come detto - non tutti sono così espliciti: risale a qualche anno prima un bellissimo film di Giuseppe De Santis, Riso amaro (1949). Al centro c'è il triangolo tra due fuorilegge e una mondina, che si sviluppa come un noir americano, ma ad imporsi è la figura della mondariso, la più grande Silvana Mangano di sempre: la pellicola è girata nelle risaie del vercellese, vengono riprodotti i canti delle lavoratrici chinate nelle campagne. Il film non rinuncia alla sua storia, ma è anche in un omaggio intenso ed emozionante alle donne di quegli anni.
A proposito di operai, impossibile non citare I compagni (1963) di Mario Monicelli: in una fabbrica tessile di Torino a fine Ottocento i lavoratori si battono per ridurre da 14 a 13 le ore del turno, sotto la guida di un professore socialista (Marcello Mastroianni). La loro mobilitazione, fatta di scioperi e conflitti con il padrone, arriva da un'epoca lontana ma suona vicina a noi, se pensiamo alla Fiat di Marchionne e allo scontro sull'organizzazione del lavoro. Oggi come ieri gli operai vengono sfruttati, in alcuni casi sconfitti, ma la loro lotta non si ferma.
Il cinema arriva negli anni Settanta e trova il movimento studentesco, riscoprendo anche il sociale: non è casuale l'uscita de La classe operaia va in paradiso (1971). Elio Petri entra in fabbrica con la storia di Lodovico (Gian Maria Volontè), operaio alla catena di montaggio che dopo l'infortunio si avvicina alle lotte di sindacati e studenti. Da qui il licenziamento e il graduale scivolamento nella follia. Tra le vette del nostro cinema resta la scena finale, Lulù ormai impazzito che racconta il suo sogno ai colleghi: c'è una fitta nebbia e un grande muro, gli operai provano ad abbatterlo. Al di là del muro c'è il paradiso.