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“Un passo in avanti, forse piccolo ma molto significativo, dal punto di vista del principio di autodeterminazione, che è per noi la chiave di volta per quel che riguarda i diritti individuali e la sfera delle decisioni sul proprio corpo”. Così Sandro Gallittu, responsabile ufficio Nuovi diritti della Cgil nazionale, in merito alla sentenza della Cassazione del 17 febbraio che ha consentito a una donna trans di indicare sui nuovi documenti un nome di elezione e non la semplice trasposizione dal maschile al femminile.
Per il sindacalista con questa sentenza si “elimina un ulteriore tassello di inutile ipernormatività sulla vita delle persone, lasciando a loro non solo la decisione sul genere di appartenenza ma anche la libera scelta del nome con il quale vogliono essere d’ora in poi identificate”. “Non emergono obiezioni – scrive la Cassazione – al fatto che sia la stessa parte interessata, soggetto chiaramente adulto, se lo voglia, a indicare il nuovo nome prescelto, quando non ostino disposizioni normative o diritti di terzi”.
“La sentenza giunge in un momento in cui diventano più forti le sollecitazioni per la deburocratizzazione e la demedicalizzazione dei percorsi di transizione, per giungere – prosegue Gallittu –, al pari di altre esperienze europee e internazionali, alla rettifica attraverso la sola dichiarazione da parte del soggetto interessato: una strada per qualche verso obbligata – spiega – dal momento in cui l’Oms, nel 2018, ha eliminato la cosiddetta disforia di genere dal novero delle malattie e dei disturbi mentali”.
“Non è superfluo sottolineare, ed è per noi motivo di soddisfazione – sottolinea –, che la donna trans oggetto della sentenza è stata assistita da un collaboratore ormai storico della nostra organizzazione, l’Avvocato Alexander Schuster, ancora una volta protagonista di percorsi che rendono giustizia alla libertà e all’autodeterminazione delle persone”.
“Una sentenza, lo ribadiamo, che aggiunge un tassello importante nel rendere meno complicata la vita di chi – conclude –, per poter affermare la propria identità, deve sottoporsi ancor oggi a percorsi medico-giudiziari che si consumano sul proprio corpo e sulla propria vita, impedendo spesso anche soltanto l’accesso al mondo del lavoro e con esso a una vita più degna e felice”.