Qualche segno di miglioramento c’è, ma tutto il lavoro che si crea è precario. Questa, in sintesi, l’analisi dell’Istat sui dati sull’occupazione di gennaio 2018, commentata stamattina da Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil, ai microfoni di Italia parla, la rubrica quotidiana di RadioArticolo1.

 

Accanto alla quantità dell’occupazione, che pure rimane un problema, nonostante alcuni indici positivi, c’è un problema di qualità dell’occupazione che il nostro Paese dovrà affrontare molto seriamente in termini strutturali – spiega la dirigente sindacale –. Ad esempio, un elemento positivo sono le 64.000 persone in più, rispetto agli ultimi cinque mesi di calo costante, che il lavoro hanno ripreso a cercarlo. Avendo indici di occupazione assai bassi rispetto alla media europea, è un tema su cui vanno incrementate le nostre azioni. Di contro, va aumentando l’area del disagio lavorativo, soprattutto nella fascia d’età fra i 35 e i 49 anni, quella più penalizzata, dove c’è gente che il lavoro – quasi sempre a tempo indeterminato - lo ha perso ed è stata sostituita da persone precarie con contratti a termine, anche di brevissima durata. In particolare, va crescendo la somministrazione di due o tre giorni, ma anche il part time involontario. È chiaro che costoro non li possiamo considerare nell’ambito di una ripresa strutturale dell’occupazione, perché è tutto lavoro povero e alla fine quei lavoratori rimangono nell’area del disagio economico e sociale”.

“È proprio questa la fascia che si sta allargando enormemente, e assieme alla Fondazione Di Vittorio abbiamo calcolato siano presenti quasi nove milioni di lavoratori nell’area del disagio lavorativo – dice la sindacalista –. Migliora l’occupazione femminile, ma non scordiamo il gap di partecipazione al mercato del lavoro delle donne assai ampio rispetto alla media Ue. Lo stesso vale per la disoccupazione giovanile, in leggero miglioramento, ma che ha ancora un indice superiore al 30%. Sarà compito del futuro governo concentrarsi sulla creazione di lavoro, sugli investimenti pubblici, sulla qualità del lavoro, soprattutto in campi quali la ricerca, l’innovazione, la formazione continua, l’apprendimento permanente, il governo delle transizioni, il collegamento scuola-lavoro. L’obiettivo è creare un lavoro di qualità in termini economici, di riconoscibilità sociale, di garanzie e tutele, di protezioni sociali”.

La condizione di precarizzazione riguarda ormai tutto il mercato del lavoro, osserva ancora l’esponente Cgil: "Fra tutti i dati, ciò che più colpisce è che il lavoro a tempo indeterminato era oltre il 40% del totale nel 2015, mentre tre anni dopo si attesta al 23%. Insomma, anziché combatterla e sconfiggerla, grazie alle leggi del lavoro come il Jobs act, si è incrementata in modo esponenziale la precarietà, a discapito del lavoro stabile. Un bilancio davvero infausto. Questa è una lettura che noi facciamo da tempo. All’inizio ci chiamavano gufi, poi in molti hanno capito che il vero fattore incentivante del tempo indeterminato non è stato il contratto a tutele crescenti con la riduzione delle tutele in caso di licenziamento, ma il decreto Poletti, con gli incentivi e i bonus fiscali e la decontribuzione fiscale, peraltro data a pioggia. Il nuovo dato sul calo delle assunzioni stabili, meno 62.000 a tempo indeterminato anche a gennaio, lo dovremmo tenere monitorato, perché temiamo che molti di quelli assunti con le decontribuzioni saranno licenziati a breve, alla fine degli incentivi fiscali. Insomma, sarà un processo lungo, perché non tutti sono stati assunti nel 2015 e la triennalità finirà”.

“Soprattutto, non è stato fatto un riordino delle tipologie contrattuali. Continuiamo ad andare avanti con mille forme di flessibilità, e nel frattempo si sono ridotte le tutele per i lavoratori che entrano nel mercato del lavoro. La stessa decontribuzione temporanea non ha inciso strutturalmente sul calo del costo del lavoro e soprattutto sulla diminuzione del costo che riguarda i lavoratori, perché invece per le imprese i benefici ci sono stati - e moltissimi -. E non è un caso che il tempo determinato è diventato la tipologia dominante nel mercato del lavoro: il leggero maggior costo non è considerato tale dalle imprese, se paragonato ai benefici che ne derivano in termini di liberazione da vincoli e responsabilità. Di fatto, le imprese hanno la possibilità della totale liberalizzazione del tempo determinato grazie al decreto Poletti, che andrebbe in qualche modo rivisto in termini di legislazione del lavoro. E, purtroppo, il tempo determinato rimarrà la formula preferita, se il tema delle incentivazioni continuerà ad essere quello degli ultimi anni. Quindi, l’idea che bastava liberare le imprese da alcuni vincoli e rendere più flessibile il lavoro perché automaticamente il mercato rispondesse accrescendo la qualità del lavoro e rafforzando il tempo indeterminato è stata una ricetta che si è dimostrata decisamente fallimentare”, ha concluso Scacchetti.