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Il saggio che segue è tratto dalla rivista online eticaeconomia.it
Il problema della disoccupazione giovanile sta caratterizzando il dibattito di politica economica in Europa e in particolar modo in Italia ed è divenuto oramai un tema di acceso interesse per l’opinione pubblica e il mondo accademico. Studiosi e giornalisti sono concordi nell’enfatizzare le condizioni sfavorevoli delle giovani generazioni nel mercato del lavoro, sia rispetto agli adulti e agli anziani, sia rispetto ai giovani delle precedenti generazioni, tanto da riferirsi sovente ai più giovani con termini quali generazione sacrificata, generazione zero, generazione 1.000 euro. Il Financial Times ha recentemente parlato di “lost generation” per sottolineare la forte caduta dei salari dei più giovani rispetto alle generazioni precedenti.
A questo proposito, in un nostro recente lavoro ci siamo domandati se nel corso del tempo (anche prima della crisi) in Italia la dinamica dei salari percepiti all’inizio della carriera abbia registrato uno scivolamento verso il basso nel passaggio da una generazione all’altra.
Riferendoci al periodo 1980-2009, abbiamo osservato l’andamento delle retribuzioni di un campione di lavoratori dipendenti privati seguiti nei primi 6 anni della loro attività. I lavoratori sono stati distinti in tre generazioni: i nati tra il 1965 e il 1969, i nati tra il 1970 e il 1974 e, infine, i nati tra il 1975 e il 1979, che rappresentano l’ultimo gruppo per il quale i dati consentono di seguire con buona rappresentatività le dinamiche retributive di inizio carriera.
I dati sono inequivocabili. Nella fase iniziale della carriera, la generazione degli attuali 35-39enni è stata chiaramente svantaggiata rispetto alle due coorti precedenti, dato che ha subito una marcata perdita di salario sin dall’entrata in attività, senza alcun recupero negli anni successivi. Sintetizzando, rispetto alla generazione più anziana i nati nella prima metà degli anni ’70 hanno subito una perdita cumulata nella prima fase di carriera pari a poco meno di 5.000 euro, che cresce a circa 8.100 euro per coloro che sono nati nella seconda metà degli anni ’70. E questi risultati non risentono del diverso andamento dell’economia al succedersi delle generazioni, dato che abbiamo tenuto conto di questi effetti nelle nostre stime.
La caduta dei salari di ingresso a discapito delle generazioni più giovani è un fenomeno piuttosto generalizzato; essa risulta da studi riferiti agli Stati Uniti, al Canada, al Regno Unito e all’Italia. Ciò che finora non è stato indagato è se tale scivolamento sia stato omogeneo fra tutti i lavoratori o abbia colpito alcuni più di altri.
Nel nostro studio dell’evoluzione fra le generazioni delle retribuzioni iniziali abbiamo distinto i lavoratori in tre categorie, in base al più alto titolo di studio conseguito (al più licenza media, diploma secondario superiore e laurea). Ben diverse sarebbero infatti le implicazioni di policy e le considerazioni rispetto alla struttura della domanda e dell’offerta di lavoro se lo scivolamento riguardasse unicamente gli unskilled (come suggerisce chi interpreta le crescenti disuguaglianze come frutto del progresso tecnico e dei processi di globalizzazione che sfavorirebbero principalmente i meno qualificati) o, al contrario, riguardasse in primo luogo i più istruiti.
I nostri risultati sono decisamente allarmanti e dovrebbero essere tenuti ben presenti quando, come spesso capita, si afferma che l’incremento dei livelli di istruzione è condizione necessaria e sufficiente per risolvere le criticità del mercato del lavoro italiano. La generazione relativamente più svantaggiata è, infatti, proprio quella sulla quale si intende imperniare lo sviluppo del paese: i giovani laureati, la presunta “meglio gioventù”.
Se l’analisi viene replicata distinguendo fra chi ha al più la licenza media (ancora più del 30% fra i nati nella seconda metà degli anni ’70) e chi è in possesso della laurea, emerge con chiarezza come siano soprattutto i laureati ad avere subito una forte riduzione dei livelli retributivi rispetto alle generazioni precedenti. I laureati della generazione più giovane entrano nel mercato del lavoro con un salario che è oltre il 20% inferiore a quello dei nati nella seconda metà degli anni ’60 e il divario tende ad aumentare negli anni seguenti, minando anche le prospettive di carriera di lungo periodo. Al contrario, i “giovani” poco qualificati partono sì svantaggiati (ma nel loro caso il divario è solo del 7%), ma sembrano riconquistare il terreno perso inizialmente già nei primi anni di carriera.
Nel corso dei primi sei anni di attività, i laureati risultano avere perso complessivamente 35.500 euro rispetto ai nati nel periodo 1965-1969 e la perdita (circa 29mila euro) è molto forte anche per i nati nel primo decennio degli anni ’70, fra cui rientrano molti di coloro che hanno iniziato a lavorare nel periodo compreso tra la crisi occupazionale del 1992-93 e l’avvio del processo di deregolamentazione del mercato del lavoro. Anche per chi ha un diploma secondario superiore le perdite relative sono sostanziali (16.700 e 9.100 euro a discapito dei nati, rispettivamente, nella seconda e nella prima metà degli anni ’70). I divari cumulati sono, invece, decisamente inferiori fra i giovani poco qualificati (2.800 e 2.100 euro a discapito degli appartenenti, rispettivamente, alla coorte più giovane e a quella intermedia).
I divari fra le generazioni persistono se si guarda ai salari settimanali, anziché a quelli annuali, ma risultano attenuati. Questa attenuazione indica che i giovani delle coorti più recenti sono stati penalizzati anche da una più ridotta partecipazione al mercato del lavoro, probabilmente in seguito alle riforme che hanno favorito la discontinuità delle prestazioni lavorative. La penalizzazione dei giovani delle coorti più recenti avviene, quindi, su due dimensioni: il salario e l’occupazione.
E’ importante cercare di spiegare cosa abbia determinato questo scivolamento delle retribuzioni che è particolarmente marcato per chi è dotato di un maggior capitale umano. Al momento, non si dispone di analisi esaurienti; tuttavia le spiegazioni possibili sembrano essere di due tipi: le prime legate al funzionamento dei mercati, le seconde dipendenti da alcuni fattori strutturali ed istituzionali che caratterizzano la realtà italiana.
Per quanto riguarda le spiegazioni di “mercato”, si potrebbe sostenere che, essendo aumentati i livelli di istruzione della forza lavoro, il lavoro qualificato sia diventato più diffuso e, quindi, meno remunerato. Tale ragionamento vale, però, solo se la domanda di lavoro qualificato è rimasta stabile, o è cresciuta meno dell’offerta. Questo sembra essere il caso del nostro paese, diversamente da quanto è accaduto in molti altri paesi Ocse dove la domanda di lavoro qualificato è cresciuta più dell’offerta con consistenti effetti sul corrispondente salario. Inoltre, l’Italia è caratterizzata fra i paesi Ocse dai livelli più bassi di istruzione, con una quota di laureati intorno al 15% contro circa il 40% negli Stati Uniti e valori fra il 25 ed il 35% in molti paesi Europei, fra cui la Francia e la Germania. Risulta pertanto arduo sostenere che in Italia i laureati siano talmente tanti (o di qualità talmente bassa e decrescente) da determinare una riduzione dei loro salari.
La riduzione potrebbe, dunque, dipendere soprattutto dalle peculiarità della struttura produttiva italiana. La sostanziale stabilità della domanda di lavoro qualificato potrebbe, infatti, derivare da una struttura produttiva che fatica a introdurre innovazioni, anche perché le imprese perseguono strategie di contenimento dei costi, anziché di miglioramento della qualità e, perciò, non riesce a mettere a frutto le potenzialità di giovani generazioni mediamente più istruite. D’altro canto, tali strategie potrebbero essere state rese più convenienti dal processo di deregolamentazione delle forme contrattuali e dalla minore incisività dell’azione dei sindacati che, indeboliti ed impegnati a difendere i livelli salariali minimi, potrebbero aver dedicato minore attenzione alle mansioni e alle prospettive di carriera offerte ai più istruiti.
Se questa analisi è corretta, sarebbe un grave errore pensare che per migliorare le prospettive delle nuove generazioni sul mercato del lavoro sia sufficiente intervenire soltanto dal lato dell’offerta senza preoccuparsi di incidere, primariamente, sui vincoli che emergono dal lato della domanda.
* tratto da eticaeconomia.it