Conflitto di funzioni e competenze, ritardi nei finanziamenti, degrado delle strutture e inadeguatezza delle strumentazioni. E ancora, vaste sacche di precariato, età media del personale sempre più alta, ed esternalizzazioni ancora più diffuse per gestire uno stock di oltre 9 milioni di utenti ogni anno. È questa la fotografia degli oltre 500 Centri per l’impiego (Cpi) italiani, scattata da uno studio dell’Isfol e che certifica il tracollo delle politiche attive.

La vicenda dei Centri dell’impiego
Un tempo erano servizi direttamente attribuiti alle Province dalle Regioni nell’attività concreta di gestione delle politiche attive, distribuiti sul territorio nazionale sulla base di bacini con un’utenza media non inferiore ai 100 mila abitanti. Una strutturazione radicalmente cambiata dopo il varo della legge sul riordino istituzionale. Con la legge Delrio, “e lo svuotamento delle funzioni attribuite alle Province, si è scardinato questo sistema”, spiega il segretario nazionale della Fp Cgil, con delega agli enti locali, Federico Bozzanca. Che aggiunge: “I servizi per l’impiego sono tornati totalmente in capo alle regioni, mantenendo il personale presso le province e le città metropolitane, senza però la previsione di un meccanismo che rendesse effettiva la sostenibilità delle loro funzioni nei territori e del mantenimento del relativo personale e delle loro professionalità e competenze”. Uno stato di 'caos istituzionale' che, secondo il dirigente sindacale, sta determinando il tracollo delle politiche attive e dei servizi offerti dai Centri per l'Impiego. “Oggi - afferma Bozzanca - queste strutture sono lasciate nella confusione più totale dal punto di vista legislativo e da quello organizzativo”.

Nel luglio del 2015 è stata sottoscritta una convenzione generale tra il ministero del Lavoro e la Conferenza Stato-Regioni, nella quale i ‘livelli essenziali’ in materia di politiche attive continuano a essere garantiti attraverso l’utilizzo del Fondo sociale europeo e di un apporto economico finanziato dal ministero e dalle Regioni. Una convenzione che, attraverso la sottoscrizione di ulteriori accordi su base regionale, “ha mantenuto in vita sino ad ora i centri per l’impiego, grazie soprattutto al grande apporto professionale dei lavoratori precari, con il contratto in scadenza al 31 dicembre 2016, e senza ancora nessuna certezza, né di stabilizzazione, né di proroga”.

Il personale
Attualmente sul territorio nazionale è applicato un vasto ventaglio di nuove ‘opportunità’ organizzative per la ‘salvaguardia’ dei dipendenti dei Cpi esclusi dai processi di mobilità e, quindi, dalla possibilità di una ricollocazione come invece accade agli altri ‘ex provinciali’. Le regioni stesse hanno scelto tra diverse modalità: l’assegnazione temporanea alle regioni e alle Agenzie per il Lavoro, come in Emilia Romagna e in Abruzzo, l’attribuzione agli enti di area vasta, come nel Lazio, in Veneto e in Puglia, o l’avvalimento, in Campania e in Molise.

In questo quadro confuso, la situazione dei precari è sicuramente la più disastrata”, specifica Bozzanca nel sottolineare quanto ci siano ancora quasi 2 mila precari su un totale di poco meno di 9 mila lavoratrici e lavoratori impiegati nei centri. “Da anni assistiamo a rinnovi su rinnovi, nonostante le diverse procedure concorsuali che hanno superato sinora per essere stabilizzati. Sono precari decennali che alla fine di quest’anno (hanno il contratto in scadenza al 31 dicembre del 2016 ndr) rischiano di andare ad ingrossare le fila dei disoccupati per l’assenza di un’alternativa risolutiva al caos alla base del conflitto di competenze, funzioni e responsabilità nei finanziamenti tra Stato, Regioni, Province e Città metropolitane”.

Della fine di agosto, inoltre, l’intenzione del ministro del Lavoro Giuliano Poletti è quella di avviare le procedure per assumere mille lavoratori, ma sempre a tempo determinato. “Il risultato sarà l'aumento della già consistente ‘sacca di precariato’ dei servizi per l’impiego - commenta Bozzanca -, senza però rispondere efficacemente alle esigenze quotidiane dei cittadini”.

Il caso 1
Esemplificativo della situazione di abbandono del personale è il Molise: 3 centri per l’impiego e 83 impiegati, di cui solo poco più del 50% a tempo indeterminato. I restanti 41 sono a tempo determinato o a collaborazione, anche loro in scadenza al 31 dicembre di quest’anno. Operatori che, benché vivano in uno stato di incertezza lavorativa, “stanno mantenendo in vita i centri per l’impiego e permettono, malgrado tutto, l’erogazione dei servizi ai cittadini della regione molisana”. L’elemento ancora più drammatico è la situazione di 25 operatori ai quali, dopo quasi 12 anni di lavoro nei Cpi di Campobasso e Termoli, non è stato rinnovato il contratto, nonostante continuino a portare avanti l’attività dei servizi per le politiche attive senza percepire stipendio da 6 mesi.

Le risorse economiche e le ricadute sulle strutture e sulle strumentazioni
I finanziamenti per il mantenimento dei Centri per l’impiego provengono dal Fondo sociale dell’Unione europea, dal ministero del Lavoro e dalle regioni, incaricati di trasferirli alle province per garantire l’erogazione dei servizi. Sono quasi generalizzati all’intero territorio nazionale i forti ritardi nell'erogazione delle risorse economiche ai Centri per l’impiego. Questo non solo comporta un arretramento nel pagamento degli stipendi ai dipendenti - nella provincia di Reggio Calabria ad esempio il personale è arrivato a non percepire stipendio per più di 15 mesi -, ma anche l’arretratezza e l’usura della strumentazione a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori. Spesso si trovano a rispondere all’ampio bacino di utenza con un pc su quattro dipendenti o senza avere accesso a internet. Ovvia conseguenza è il rallentamento dell’attività o addirittura l’inutilità stessa dei servizi che dovrebbero essere garantiti dal centro per l’impiego.

Il caso 2
Nell’ex provincia di Perugia, dove sono impiegati poco più di 100 lavoratori e in cui il bacino medio di utenza è di circa 52 mila iscritti, “si deve ripartire dalle basi” - spiega Bozzanca -. I computer sono ormai obsoleti, gli aggiornamenti e i corsi di formazione inesistenti, la rete internet e l’assistenza informatica tutt’altro che adeguati. Quello di cui soffrono maggiormente i dipendenti e, ancor di più, gli utenti è l’assenza di un vero e proprio collegamento con le realtà datoriali e con le altre istituzioni come l’Inps, l’Inail o l’Agenzia delle entrate”. La mancanza di strumentazioni adeguate ricade inevitabilmente sull’efficacia dei servizi, garantiti oggi solo dalla ‘buona volontà’ degli operatori.

A complicare il quadro appena descritto anche la possibilità che, a seguito di un risultato confermativo del referendum del 4 dicembre sulla riforma della Costituzione, l’intera materia delle politiche attive per il lavoro possa passare ad essere di competenza esclusiva dello Stato. Da qui la creazione di Anpal, l'Agenzia nazionale politiche attive per il lavoro. “Oggi dovrebbe avere un ruolo e svolgere funzioni giusto di coordinamento delle politiche che, però, resterebbero in capo alle regioni. Ancora, però, agli occhi dei più, rimane una scatola vuota”, precisa il sindacato.

Per la Fp Cgil, si dovrebbe provvedere a disegnare al più presto un assetto che preveda l’affidamento dei Centri per l'impiego alle regioni. Si dovrebbe risolvere, poi, nel più breve tempo possibile anche la partita del precariato. Le ragioni per le quali, unitariamente, i sindacati hanno indetto lo Stato di agitazione dei dipendenti dei Cpi. “Ci prepariamo a mettere in campo, anche con Cisl e Uil, tutte le iniziative necessarie per non disperdere il vasto panorama di professionalità delle operatrici e dei operatori e per migliorare la qualità dei servizi ai cittadini. Una crescente mobilitazione che prenderà le mosse dal prossimo 7 novembre con un presidio delle lavoratrici e dei lavoratori sotto il ministero del Lavoro”.


Il caso di Reggio Calabria