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Lo sfruttamento dello stato di bisogno dei lavoratori continua a caratterizzare l’organizzazione del lavoro, soprattutto bracciantile, rappresentando la modalità principalmente utilizzata da alcune aziende per il reclutamento di manodopera stagionale. Proprio la legge sul caporalato (199/2016: “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”), approvata in via definitiva dal Parlamento lo scorso 18 ottobre, è da considerare senza alcun dubbio uno dei lasciti principali sul versante normativo dell’anno che si è appena concluso.
Il caporalato sembra costituire un elemento quasi strutturale dell’organizzazione del lavoro di alcuni settori produttivi, un “servizio” che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del lavoro, oltre che per controllare e disciplinare la forza lavoro, utilizzando a tal fine proprio quelle categorie di prestatori dotati di minore capacità e forza contrattuale e, in quanto tali, facilmente sottoponibili a condizioni di sfruttamento.
Questa pratica prevede che sia il caporale a ingaggiare per conto dei datori di lavoro la manodopera: recluta giornalmente i lavoratori di una certa zona, li conduce sul luogo di lavoro sorvegliandone l’attività (per 8-12 ore al giorno) e stabilisce il loro compenso (spesso 2-3 euro l’ora), trattenendo per sé una cospicua parte come “tariffa” per il trasporto e l’alloggio (in genere, casolari abbandonati dove i braccianti vivono in condizioni igieniche degradanti (vedi Amnesty International, Exploited labour: Migrant workers in Italy’s agricultural sector, 2012).
A trarre profitti illegittimamente dallo sfruttamento lavorativo sono, quindi, gli imprenditori agricoli e i caporali che possono in questo modo beneficiare di manodopera a basso costo, praticando un vero e proprio dumping sociale, grazie al lavoro nero e sottopagato dei braccianti, costretti a lavorare sotto continua minaccia, intimidazioni, ricatti e violenza. Anche solo da questa analisi preliminare, è facile formarsi il convincimento che il caporalato di fatto racchiude diverse fattispecie di illecito: all’elusione contributivo-previdenziale e alla violazione delle norme in materia di lavoro (somministrazione, orario e riposo, sicurezza e igiene sul luogo di lavoro), non di rado si somma lo sfruttamento lavorativo, la tratta degli esseri umani, la violenza.
Il caporalato è stato originariamente ricompreso nelle fattispecie dell’intermediazione illecita di cui alle leggi 264/1949 e 1369/1960; e, per i casi più gravi, nei reati di cui agli articoli 600, 601, 602 e 603 del codice penale. Le prime disposizioni censuravano l’interposizione e somministrazione di lavoro condotta al di fuori degli uffici pubblici, e l’utilizzo di contratti di “pseudo-appalti” volti a nascondere la fornitura di manodopera. Le seconde, si preoccupavano di sanzionare le fattispecie –anche “di fatto” – del mantenimento in schiavitù o servitù, della tratta di persone, dell’acquisto e alienazione di schiavi, del plagio.
La verità è che le disposizioni richiamate si limitavano a sanzionare solo due aspetti estremi e opposti – se pur rilevanti – dell’attività dei caporali, il reclutamento illecito della manodopera e lo sfruttamento perpetuato a danno dei lavoratori, lasciando senza copertura giuridica quelle situazioni ricomprese all’interno dei due estremi: la violenza, la minaccia e lo sfruttamento dello stato di bisogno dei lavoratori che, per contro, si verificavano con sempre più frequenza in alcuni settori produttivi, complice il dilagare della crisi economica del 2008 e l’intensificarsi dei flussi migratori.
Con la finalità di adeguare le fattispecie del codice penale al fenomeno del caporalato, il dl 138/2011 ha introdotto due nuove disposizioni che mirano a punire il delitto di “intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro”. Le disposizioni sanzionano “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa, caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.
L’introduzione di una simile fattispecie delittuosa ha sicuramente contribuito a colmare il vuoto legislativo relativo al caporalato; tuttavia, la sua azione repressiva si è dimostrata nel tempo di portata ridotta. Tra i profili più critici della disposizione, la mancanza di sanzioni per il datore di lavoro utilizzatore, soggetto attivo nella fattispecie di reato, e la totale assenza di tutela e sostegno per i lavoratori vittime di caporalato. Si può, dunque, ritenere che nonostante l’intervento legislativo del 2011, il sistema del caporalato è rimasto in piedi per l’impossibilità delle norme di incidere sulle cause, invero complesse, alla base del fenomeno.
Non sorprende pertanto che anche i recenti studi sui crimini del settore agroalimentare e sul caporalato (quarto Rapporto sui crimini agroalimentari, Eurispes; terzo Rapporto Agromafie e caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto, Flai Cgil, 2016), abbiano restituito un’immagine preoccupante della diffusione di questo fenomeno nel mercato del lavoro nazionale. Anzi, è stata proprio la gravità della situazione, ampiamente documentata, ad aver posto con urgenza il tema di un nuovo intervento del legislatore con l’obiettivo di risolvere le inefficienze delle precedenti misure e le contraddizioni che hanno reso difficoltoso il ricorso all’autorità giudiziaria per denunciare i casi di sfruttamento lavorativo.
La legge approvata di recente sembra andare in questa direzione, laddove agisce con una strategia di ampio respiro su diversi aspetti del fenomeno criminale, garantendo al contempo la tutela del lavoratore, specie se immigrato. La prima novità è rappresentata dai “nuovi” articoli 603-bis1 e 603-bis2 del codice penale, concernenti l’estensione delle sanzioni al datore di lavoro che assume o impiega manodopera anche mediante l’intermediazione del caporale, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno.
In questo modo, a rilevare giuridicamente non è più solo il caporale che assume comportamenti violenti o intimidatori, spesso difficili da provare, ma anche le azioni che prescindono da questi atti (la corresponsione di retribuzioni difformi dai ccnl nazionali o territoriali, la violazione delle norme su orario di lavoro, riposo, ferie, e igiene e sicurezza) e che sono imputabili direttamente al datore di lavoro. Questa disposizione, assieme alla previsione di un’attenuante in caso di collaborazione con l’autorità giudiziaria, potrebbe effettivamente rendere più facile applicare la norma nei processi per riduzione in schiavitù, incentivando gli imputati a collaborare con l’autorità giudiziaria.
Sempre con riferimento agli strumenti repressivi, è da considerarsi positivo l’inserimento del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro tra i reati per i quali è disposta la confisca obbligatoria. Una simile misura, infatti, appare particolarmente efficace nel contrastare le attività criminali organizzate, poiché sottrae all’autore del crimine la disponibilità delle cose che sono servite o sono state destinate a commettere il reato (il prezzo, il prodotto o il profitto stesso).
Per quanto concerne gli strumenti di sostegno e tutela per i lavoratori vittime di caporalato, la legge introduce il controllo giudiziario (in luogo del sequestro) dell’azienda presso cui è stato commesso il reato, al fine di tutelare i livelli occupazionali e il valore economico aziendale, oltre che un indennizzo per le vittime, finanziato dal Fondo anti-tratta (cui sono destinati i proventi delle confische), e l’adozione di un piano di interventi per la sistemazione logistica e il supporto dei lavoratori stagionali.
In questo senso, un ruolo importante può essere giocato dal consolidamento della “Rete del lavoro agricolo di qualità” (dl 91/2014): un elenco delle imprese agricole in regola con le disposizioni in materia di lavoro e previdenza, che dovrebbe agire orientando l’attività di vigilanza nei confronti delle imprese non appartenenti. Al riguardo, sono disposti monitoraggi costanti trimestrali, anche accedendo ai dati disponibili presso il ministero del Lavoro e l’Inps, relativi all’instaurazione, alla trasformazione e alla cessazione dei rapporti di lavoro, sull’andamento del mercato del lavoro agricolo.
Considerando che il caporalato rappresenta una prassi che nel tempo si è consolidata “grazie” anche alle inefficienze del sistema pubblico (dei trasporti, del collocamento, delle ispezioni ecc.) e alla vulnerabilità sociale di una parte crescente della forza lavoro, è necessario che la disciplina legale oltre ad agire sulla repressione del caporalato, agisca sul “contesto” giuridico economico e sociale in cui lo stesso si sostanzia. Gran parte dell’efficacia della nuova normativa dipenderà, pertanto, proprio dal suo coordinamento con le misure in materia di immigrazione e mercato del lavoro e dall’azione di tutti (sindacati, associazioni di categoria ecc.) nel contrasto della disgregazione sociale.
Francesca Fontanarosa è dottoranda in Diritto pubblico dell’economia presso il dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza, Università di Roma