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Un rapporto fatto di storie e numeri. C’è la storia di Francis, ex caporale oggi pentito, la storia di Agnese e dei tanti che come lei si sono ribellati al regime di sfruttamento, trovando nel sindacato uno strumento di riscatto e di affermazione della loro dignità. Poi ci sono i numeri: 430mila lavoratori agricoli in nero o sotto caporale, 80 distretti agricoli coinvolti da Nord a Sud, un business che tra infiltrazione della criminalità e sfruttamento dei caporali muove tra i 14 e 17,5 miliardi di Euro. È questo in sintesi il contenuto del terzo rapporto Agromafie e caporalato (Ediesse, 2016), redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto, promosso dalla Flai Cgil con l’obiettivo di indagare le forme di illegalità che percorrono tutta la filiera agroalimentare e su una delle più gravi storture del nostro mercato del lavoro, il caporalato.
Una piaga antica, ma purtroppo mai estirpata dalle nostre campagne di raccolta. E che si presenta oggi nella sua versione moderna, ovvero dietro forme apparentemente legali, che invece nascondono fenomeni di sfruttamento lavorativo: false cooperative, agenzie interinali utilizzate in modo strumentale, rapporti di lavoro attivati, ma giornate lavorative mai versate. Le recenti norme che hanno liberalizzato il mercato del lavoro, abbassando di conseguenza il controllo di legalità, rischiano dunque di favorire un processo di elusione contrattuale, mascherando il caporalato dietro finti rapporti di lavoro. Come nel caso di Paola Clemente, la bracciante pugliese deceduta lo scorso anno, formalmente assunta da un’agenzia interinale, ma in realtà il suo salario reale era di gran lunga inferiore alla sua busta paga.
Proprio su quello che potremmo considerare “nuovo caporalato” ha deciso di accendere un riflettore la commissione parlamentare di inchiesta sulle morti sul lavoro, che in merito alla vicenda drammatica di Paola, in un’indagine conoscitiva, ha scritto: “Dall’inchiesta in oggetto emerge che il sistema normativo delineato ha trovato un deficit di legalità nel funzionamento concreto dei contratti di somministrazione e nel procacciamento degli stessi per poter acquisire la disponibilità di lavoratori e utilizzatori nell’ambito di un territorio ad alta vocazione agricola”. Insomma, i caporali, attraverso l’utilizzo di forme sempre più flessibili e precarie, hanno reso legale ciò che legale non è.
Ciò fa emergere un sistema ben strutturato – si passa, dunque, dal singolo caporale al caporalato come sistema – che vede la complicità di “colletti bianchi”, professionisti del malaffare, commercialisti e consulenti del lavoro al servizio di consorterie criminali che lucrano sulla condizione di vulnerabilità e debolezza dei lavoratori, in particolare stranieri. Proprio in merito alla presenza di braccianti stranieri – siano essi comunitari o no – il rapporto pone l’attenzione in particolare rispetto alle campagne di raccolta intensive che ciclicamente attraggono centinaia di lavoratori in cerca di impiego.
È proprio in questo segmento che si concentra quello che abbiamo definito il “caporalato mafioso”, ovvero un intreccio tra tratta internazionale degli esseri umani e un caporalato violento, che impone alloggi ai limiti della dignità umana come i ghetti nelle aree agricole, o la sottrazione dei documenti, le estorsioni, le minacce, per imporre il sistema di sfruttamento. A questi lavoratori viene solitamente corrisposto un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dai contratti nazionali o provinciali di lavoro, lavoro a cottimo (esplicitamente vietato dalle norme di settore), ore di lavoro che possono arrivare fino alle dodici consecutive, senza nessuna tutela, né dotazione di salute e sicurezza.
Secondo la nostra rilevazione, il 60% di questi lavoratori non ha accesso ai servizi igienici e all’acqua potabile durante le ore di lavoro. In queste situazioni una squadra di caporali, organizzata su un modello piramidale, così come dimostrato dai processi in corso, può arrivare a guadagnare solo dall’intermediazione illecita circa 225mila euro al mese, a cui vanno aggiunti i proventi da attività estorsive, come il trasporto o la fornitura di beni di prima necessità, che possono raddoppiare il guadagno mensile.
Non esiste più una divisione delle condizioni di lavoro tra Nord e Centro-Sud Italia. Il caporalato è ben diffuso, seppur a diverse intensità, lungo tutta la penisola. Come dimostrato dall’ultimo blitz in terre di Chianti qualche giorno fa, dove profughi e richiedenti asilo venivano inseriti nel circuito dello sfruttamento agricolo. Non esiste forse un unico modello di caporalato, sicuramente è più violento ed efferato come fenomeno nei distretti a più alta densità mafiosa, ma certo è che dal Piemonte alla Sicilia negli ultimi anni sono stati registrati episodi di caporalato.
Confortante invece il dato sulle ispezioni, che, anche grazie al lavoro di denuncia della Flai Cgil, sono aumentate nel 2015 del 59% rispetto all’anno precedente. Meno confortanti gli esiti delle stesse: su 8.862 aziende ispezionate sono stati trovati 6.153 lavoratori irregolari, di cui 3.629 totalmente in nero, con 713 episodi di caporalato registrati. Un lavoro ispettivo che va rafforzato con determinazione, ma che tuttavia si scontra con le difficoltà della spending review, che ha notevolmente indebolito il controllo di legalità sui luoghi di lavoro.
Un ultimo cenno alle agromafie, ovvero quel complesso di fenomeni d’infiltrazione delle mafie e della criminalità organizzata all’interno della filiera agroalimentare. Nel rapporto, sulla base dei dati messi a disposizione dalle forze di polizia e dalla magistratura, vengono riportate le principali attività delle mafie: dalla gestione dell’import-export dei prodotti alimentari di qualità al riciclaggio e all’usura delle aziende che negli anni della crisi fanno sempre più fatica ad accedere al credito legale. Non mancano le frodi all’Unione europea, come anche la contraffazione del made in Italy alimentare, un business dal valore di un miliardo di euro.
Pane, caffè, pesca, macellazione e vino, i settori merceologici più esposti all’infiltrazione delle organizzazioni criminali, che negli anni hanno ricominciato a investire in uno dei settori più importanti della nostra economia. Poi c’è la gestione dei mercati ortofrutticoli: recenti sentenze hanno dimostrato che le mafie tendono a spartirsi il business della gestione dei mercati e non competere, come sono solite fare in altre attività. In pratica, Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta, in merito alla gestione di alcuni tra i mercati più importanti del nostro paese (Vittoria, Fondi e Milano), hanno stretto un patto di non belligeranza, con l’obiettivo di divedersi il business legato alla commercializzazione dei prodotti e alla logistica.
Insomma, dal terzo rapporto Agromafie e caporalato emerge con forza la necessità di contrastare il malaffare e l’aggressione delle mafie al made in Italy alimentare, se si vuole davvero puntare su questo settore e renderlo un volano per uno sviluppo di qualità contro la crisi.
Roberto Iovino, Flai Cgil, dell’Osservatorio Placido Rizzotto