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Pubblichiamo la prefazione del segretario generale della Cgil Susanna Camuso al Rapporto sui diritti globali 2015. Lo studio, pubblicato da Ediesse, quest'anno s'intitola “Il nuovo disordine mondiale”. E' curato dall’Associazione società informazione Onlus e promosso dal sindacato di Corso d'Italia, con la partecipazione di ActionAid, Antigone, Arci, Cnca, Fondazione Basso, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
La Storia ha portato le carte costituzionali, soprattutto in Occidente, a fondare nel lavoro la democrazia, i diritti e le libertà fondamentali tanto che il lavoro può costituire “la migliore approssimazione alla felicità sulla Terra”. Oggi più che mai appare evidente che l’ultima “grande trasformazione” del Capitalismo è avvenuta a scapito del lavoro e ha prodotto la crisi, e solo ripartendo dal lavoro si può risolvere la crisi in cui è caduta l’economia di gran parte del mondo occidentale, dell’Europa e del nostro Paese.
Dalla crisi non è detto che si esca con una società migliore. Quasi mai ciò è avvenuto nella storia. Il dibattito dei più illustri filosofi, sociologi ed economisti si concentra sul rischio di una “stagnazione secolare”. C’è la consapevolezza che il modello di sviluppo attuale, in presenza di un diffuso rallentamento demografico e un progresso tecnologico esclusivo e selettivo, in futuro non creerà spontaneamente lavoro e crescita. Nonostante le ripetute grida di giubilo per qualche decimale di punto con il segno più che molti lanciano.
Quale ripresa?
La più grave crisi economica dal secondo dopoguerra non è finita. La variazione del Prodotto interno lordo non fornisce sufficienti indicazioni di una seppur debole ripresa. Allo stesso tempo l’importante discussione sui nuovi indicatori dello sviluppo economico, sociale e ambientale ha subito una battuta d’arresto. Di sicuro, non vi è traccia alcuna della risoluzione delle cause alla base della crisi e delle spirali recessive che hanno vorticosamente scatenato disoccupazione, deflazione e povertà, prima negli Stati Uniti, poi in Europa, infine nei Paesi emergenti. La crisi di domanda globale insiste, alimentando gli squilibri macroeconomici.
L’aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, esagerato dalla degenerazione della finanza, che ha generato la crisi, continua a produrre vuoti nella domanda effettiva attraverso la perdita di occupazione, di redditi da lavoro, d’investimenti e consumi collettivi. Diventa sempre più urgente la necessità di cambiare le politiche economiche e sociali recuperando l’obiettivo della piena e buona occupazione. Per uscire dalla crisi occorre, in definitiva, ripensare il modello di sviluppo, puntare a una crescita trainata dal lavoro di qualità – con più diritti e più salario –, spingere i mercati e le imprese a investire e innovare, se non addirittura a creare nuovi settori e nuovi processi. Per farlo, però, è necessario abbandonare l’ideologia del laissez faire e riprogettare l’intervento pubblico in economia.
Gli errori della governance europea
In Europa la crisi si è moltiplicata soprattutto per le scelte sbagliate della governance economica europea, i cui percorsi democratici sono stati forgiati su un’architettura istituzionale troppo fragile. I trattati, le istituzioni e le politiche europee sono divenuti insostenibili dal momento in cui è stata scelta l’austerità come strategia per affrontare la crisi: rigore dei conti, riduzione del perimetro pubblico, tagli alla spesa, ridimensionamento del welfare, alta disoccupazione strutturale, svalutazione competitiva dei salari e del lavoro. Tutti elementi di una politica che ha moltiplicato recessione, deflazione e depressione. Basterebbe l’onestà intellettuale di un’analisi rigorosa per comprendere il fallimento di tale strategia. Eppure, in Europa e, in particolare, nell’Area euro, le analisi e le scelte politiche continuano a essere orientate alla difesa di quelle scelte. Non a caso, le disuguaglianze aumentano tra i Paesi europei e nei Paesi europei.
L’urgenza della questione sociale
Occorre una visione alternativa dell’economia e della società, che fondi la nuova crescita nel lavoro. In generale, nel panorama istituzionale e politico europeo la “questione sociale”, non è sufficientemente rappresentata. Anche le forze politiche storicamente radicate nel lavoro sembrano aver ceduto terreno alle spinte liberiste e aver perduto la via del riformismo, della crescita equilibrata della costruzione di una società trainata da giustizia sociale e sviluppo sostenibile. Incombe il pericolo che la nuova disoccupazione e la nuova povertà rafforzino istanze anti-europee e, persino, anti democratiche. È chiaro come una politica alternativa al liberismo, all’austerità e alla competizione nazionalistica non possa essere cercata in soluzioni e ideologie del passato. Tuttavia, solo riscoprendo il senso profondo dell’idea di uguaglianza che risiede nello spirito delle politiche ispirate dai movimenti dei lavoratori e dalle forze politiche che ambiscono a rappresentare il lavoro si può promuovere un’idea diversa di Europa.
La debolezza strutturale italiana
Le scelte di tutti gli ultimi governi hanno amplificato le debolezze strutturali del nostro sistema-Paese che ne hanno caratterizzato il declino nei primi anni Duemila e che, nella crisi, hanno portato a registrare la maggiore intensità recessiva tra tutti i principali Paesi industrializzati. Le misure intraprese e le riforme avviate hanno solo indebolito i lavoratori, i pensionati, la società e peggiorato le prospettive delle nuove generazioni. Negli ultimi sette anni, la disoccupazione, soprattutto giovanile e femminile, ha raggiunto livelli inaccettabili. All’insegna dell’euro-austerità, i tagli alla spesa e le continue distorsioni del sistema fiscale hanno rafforzato l’alleanza fra profitti e rendite a scapito del lavoro e della crescita del Paese.
L’Italia resta uno dei Paesi più diseguali del mondo e anche nel nostro Paese una stretta alla democrazia che colpisce anche i corpi intermedi, e in particolare il sindacato, getta un’ombra sul futuro. Eppure, le potenzialità per riprendere la via di una crescita inclusiva e sostenibile ci sono, anche se ora restano inespresse. Oggi più che mai è indispensabile ridurre le diseguaglianze, ridare valore e dignità al lavoro. Per farlo, serve una vera politica espansiva, con un nuovo ruolo economico dello Stato e una rivitalizzata democrazia economica. Serve il Piano del Lavoro elaborato e proposto al Paese dalla Cgil. Da parte nostra, l’impegno nel rinnovare rappresentanza e contrattazione ha come scopo principale proprio quello di portare il Paese fuori dalla crisi, anche per costruire un’Europa forte e solidale, verso un nuovo sentiero di crescita e di sviluppo.