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È la sera del capodanno 1969, la televisione trasmette il servizio in cui racconta che il ministro del lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, che è stato fino a qualche anno prima vicesegretario della Cgil, ha trascorso la notte precedente con i lavoratori della fabbrica romana Apollon. Hanno montato una tenda a Piazza Montecitorio e protestano contro la chiusura del loro stabilimento; salutano così, insieme con un politico che si sente parte della loro stessa famiglia, l’arrivo del nuovo anno.
Brodolini, quarantotto anni e cinque mesi, colpito da un cancro contro cui non è bastata l’operazione subita qualche tempo prima, quella notte sa già di essere arrivato alla dirittura finale della sua vita. E con coraggiosa lucidità affida ad un atto simbolico di solidarietà, che l’opinione pubblica del paese possa comprendere senza equivoci, la prova del cambiamento di orientamenti e di politica che c’è stato con il centrosinistra, all’interno di quella che Pietro Nenni aveva chiamato “la stanza dei bottoni”.
Un atto simbolico e politico
Il gesto di quell’inizio d’anno lo fa diventare il bersaglio polemico della parte più conservatrice del paese che, al pari del mio parente poliziotto, non riesce a vederci null’altro che la conferma della prossima fine di una società, in cui a nessun ministro era passato mai in mente di mischiarsi con dei lavoratori in lotta, indicando clamorosamente da che parte sta. Ma sul paese soffia ormai la ventata delle lotte studentesche e la stagione delle grandi rivendicazioni operaie e sindacali preme alle porte di tutti i palazzi del potere. Non si tratta, però, solo di atti simbolici. Appena qualche giorno dopo la veglia romana, Brodolini si reca ad Avola a ricordare i due braccianti uccisi dalla polizia, un mese prima, nel corso degli scontri che hanno punteggiato la lotta per il rinnovo del loro contratto provinciale di lavoro. Nella sala del municipio del piccolo paese siciliano, il ministro (dei lavoratori, non del lavoro – come tiene a ripetere) illustra il programma su cui impegnerà la sua attività, nel governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor, fresco della fiducia parlamentare ottenuta a metà del dicembre appena passato.
Il “manifesto” di Avola
Tutte le grandi questioni riguardanti il lavoro e la vita del movimento sindacale trovano posto in quel discorso. Statuto del sindacato nell’impresa, giustizia del lavoro e tutela dei diritti individuali, riconoscimento delle “categorie sottoprotette”, adeguamento del sistema della formazione professionale, potenziamento degli ispettorati del lavoro, riforma del collocamento con maggiori poteri e funzioni agli organi collegiali per eliminare il caporalato, che Brodolini stigmatizza come “medievale e inumana pratica dell’ingaggio della manodopera sulla pubblica piazza, quasi che si tratti di bestiame per lavori pesanti e non di lavoratori partecipi di un processo di sviluppo, di rinnovamento e di democratizzazione delle strutture del vecchio stato liberale che vede in loro i protagonisti di questa nuova era dei rapporti sociali e della storia”. Ma ciò che sorprende è che, nei sette mesi del suo breve ministero, tutti quei punti, insieme con altri di analoga rilevanza, vengono affrontati di petto e a ciascuno di essi o viene data la soluzione o si dettano le premesse perché altri successivamente lo possa fare.
Gino Giugni, all’epoca giovane capo della commissione di esperti che Brodolini porta con sè al ministero, racconta nella sua “La memoria di un riformista”: “Sembrava quasi aver fretta di portare a termine il suo compito. Riuscì a realizzare tre importanti obiettivi: la mediazione nella vertenza sulle cosiddette gabbie salariali, che favorì un accordo tra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria sull’unificazione progressiva dei salari nel paese; una riforma delle pensioni che ancorando la pensione all’80% delle ultime retribuzioni ebbe effetti duraturi e venne modificata solo con Amato nel 1992”, e, infine, lo Statuto dei lavoratori .
La fretta del Ministro
Nodi enormi, che stringono da sempre la vita sociale del paese, tranciato a metà tra nord e sud e paralizzato da istituti, leggi e consuetudini premoderne, si sciolgono a un ritmo incalzante. Francesco De Martino, il leader sulle cui abilità mediatrici Brodolini più confida negli anni dell’aspra contesa all’interno del Partito socialista tra autonomisti e sinistra (una contrapposizione che attraversa tutto il decennio sessanta, ben più complessa della semplice contrapposizione tra filo e anti governativi, agitata nella polemica del periodo), venti anni dopo avrebbe commentato nell’aula consiliare di Recanati, la città natale del compagno di un tempo: “allora vuol dire che se c’è una volontà politica, se vi sono degli uomini impegnati che credono in certe cose non è detto che il regime parlamentare debba essere lento e inefficiente”.
E, in effetti, è una rapida successione di eventi quella che conduce all’approvazione in Consiglio dei Ministri – il 20 giugno del 1969 - del disegno di legge riguardante lo Statuto dei lavoratori, il provvedimento - della cui necessità Di Vittorio aveva parlato fin dal 1952 - al quale il nome di Brodolini sarebbe rimasto legato per sempre, nonostante un iter parlamentare concluso un anno dopo, sotto la regia di un altro titolare del dicastero, il democristiano di sinistra Carlo Donat Cattin.
Ma il più è stato fatto prima e con una velocità straordinaria, resa possibile da accortezza parlamentare, voglia di lavorare, conoscenza giuridica, capacità di decidere sentendo tutti ma senza rinunciare a una sintesi operata con in testa un’idea precisa di quello che è l’interesse generale; armi delle quali Brodolini e il suo gruppo di giovani collaboratori (capo della segreteria è Enzo Bartocci) sanno far uso con intelligenza e anche con una certa dose di fiducia nei propri argomenti e nella buona fede del prossimo.
L’incalzare di quei mesi li racconta Emanuele Stolfi, in un libro uscito a metà degli anni settanta, che varrebbe la pena di ripubblicare. (“Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei lavoratori”)
Lo Statuto dei lavoratori
Parole precise erano state già pronunciate da Mariano Rumor nel discorso programmatico davanti alle Camere riunite per la fiducia al suo governo. “Prioritario – sottolinea in quell’occasione il presidente del Consiglio – il governo considera l’impegno a definire in via legislativa, indipendentemente e nella garanzia della libera attività contrattuale delle organizzazioni sindacali, e con la loro consultazione, una compiuta tutela dei lavoratori nelle aziende produttive di beni e servizi che assicuri dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento ai problemi della libertà di pensiero, della salvaguardia dei lavoratori singoli e della loro rappresentanza nelle aziende e delle riunioni sindacali nell’impresa”. La citazione, per quanto un po’ involuta, va riportata per intero perché sintetizza tutte le questioni in discussione da tempo e sulle quali si sarebbe a più riprese arrivato sull’orlo della rottura, tra le forze politiche ma anche nel sindacato.
La novità della proposta consiste nel fatto che si punta senza reticenze all’approvazione di una legge che sia di sostegno all’attività del sindacato nelle fabbriche. L’idea, ricorda Giugni, era venuta a lui e a un altro suo giovane collega, Federico Mancini, qualche anno prima, durante la lunga chiacchierata di un viaggio in treno di ritorno da un convegno di giuslavoristi. “Ambedue nutriti di una forte impronta newdealista, – racconta Giugni - proprio in quell’occasione incominciammo a pensare a un intervento legislativo che non solo potesse rimuovere gli ostacoli all’attività sindacale, ma che fosse anche in grado di costituire una sorta di strumento promozionale della stessa azione sindacale, ovviamente con particolare attenzione alla condizione operaia nei luoghi di lavoro”.
Non tutti sono d’accordo, anche a sinistra e nel mondo del lavoro. La Cisl, per esempio, per bocca del suo segretario Bruno Storti, sostiene che la regolazione di queste materie debba essere lasciata alla contrattazione. Dentro la Cgil, gli studiosi della Rivista Giuridica del lavoro manifestano altre perplessità, e spingono piuttosto perché il Parlamento approvi principi generali sulla libertà dentro i luoghi di lavoro, senza misure che sembrino ritagliare zone franche per il sindacato, di cui si teme l’irretimento dentro procedure opache e burocratiche. Umberto Terracini, capogruppo parlamentare del Pci, esprime gli stessi concetti; Luciano Lama solleva alcune riserve ma ammette che “una parte delle istanze prospettate dalle confederazioni” è stata tenuta presente nella stesura del disegno di legge; più decisi, a favore dei contenuti principali del provvedimento, anche se con entusiasmo diverso, sono invece i partiti di governo, primi fra tutti i socialisti, in quel frangente di tempo unificati con i socialdemocratici.
Il 20 giugno 1969
Lo scontro si consuma nelle riunioni della commissione parlamentare a cui viene demandato il compito di unificare le proposte di legge esistenti. Brodolini, che le ritiene troppo timide o troppo astratte, chiede ai parlamentari di sospendere i tempi di decisione per dar tempo al gruppo di lavoro che ha istituito, affidandone la guida a Gino Giugni, di proporre un testo governativo più convincente. In questo difficile incastro, la richiesta di rinvio per togliere argomenti agli avversari tout court della riforma e l’approfondimento dei contenuti chiave con audizioni di tutte le parti in causa, trova una sponda brillante in Gaetano Mancini, l’avvocato socialista presidente della Commissione lavoro del Senato, quella dove le incertezze e gli ostacoli sembrano più gravi.
Alla fine, ha ragione lui. E il 20 giugno 1969 il consiglio dei ministri approva il testo e dà così inizio al cammino parlamentare del disegno di legge “sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. Quello che diventerà, dopo un supplemento di modifiche che non ne snaturano però l’impianto, lo Statuto dei lavoratori.
Brodolini muore appena venti giorni dopo, in una clinica svizzera dove i medici tentano qualche cura per alleviargli la sofferenza, di cui collaboratori e famigliari diranno poi che non aveva mai voluto parlare.
Dovranno passare altri anni, perché il principio della libertà sindacale garantito concretamente con la sua legge entri davvero direttamente o con i suoi principi cardine in tutti i luoghi di lavoro: anche nella polizia di stato, facendo diventare i poliziotti lavoratori con gli stessi diritti e doveri di tutti gli altri. Mio zio era andato in pensione da un po’ di tempo, ma so che quel cambiamento non gli era dispiaciuto né lo aveva sorpreso più di tanto.
Forse, il nome di Brodolini gli ricordava ancora qualcosa.
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