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La concomitanza delle affermazioni dell’ex presidente del Consiglio Renzi – che ha definito il bonus di 80 euro mensili come una grande operazione di redistribuzione del reddito a favore delle classi medie e medio-basse – con l’intervento di manutenzione messo in atto nel recente ddl di bilancio per il 2018 – che modifica il range entro il quale il bonus decresce fino all’annullamento, portandolo da 24 mila-26 mila a 24.600-26.600 euro di reddito complessivo – spingono a una riflessione aggiornata su questo istituto. Il bonus – che costa allo Stato circa 9 miliardi annui, una somma ingente, dell’ordine di grandezza delle complessive detrazioni per carichi familiari – è oggi, a tutti gli effetti, un assegno di 80 euro mensili (960 euro annui) spettante per intero ai soli dipendenti e collaboratori continuativi con redditi compresi tra la soglia di capienza Irpef (8.150 euro da certificazione del datore per chi lavora l’intero anno) e 24 mila euro di reddito complessivo annuo; oltre questa soglia la spettanza si riduce rapidamente e in modo lineare, fino ad annullarsi a 26 mila euro complessivi.
In primo luogo pare utile qualche considerazione generale sull’anomala funzione redistributiva di questo strumento. Sebbene gli indicatori sintetici di disuguaglianza registrino un leggero miglioramento, esistono almeno quattro ragioni che sconsigliano di considerare il bonus 80 euro un efficace strumento redistributivo: è riservato ai soli dipendenti e assimilati (tra cui i parasubordinati); tra costoro, esclude la gran parte dei soggetti a basso reddito; l’indicatore del reddito complessivo o da lavoro dipendente, che definisce il diritto alla fruizione del bonus, è in generale inappropriato, e in pratica indirizzato a soggetti spesso non bisognosi, che andrebbero invece individuati con riferimento al complesso dei redditi ed al nucleo familiare; sia in corrispondenza del reddito oltre il quale si acquisisce il diritto al bonus, sia nel range di decrescenza, si generano aliquote marginali implicite altissime e di segno opposto, dagli effetti deleteri per l’azione redistributiva del sistema tax benefit, oltre che per un’attribuzione irrazionale dei benefici conseguenti a un aumento (o riduzione) di lavoro.
Per quanto riguarda il primo punto, colpisce l’esclusione, pur all’interno dei soli dipendenti e assimilati, dei soggetti a minor reddito, cioè coloro che, con una retribuzione lorda inferiore ai 9 mila mila euro annui, sono a maggior rischio di povertà: dipendenti dei call center, lavoratori esecutivi dei segmenti bassi di mercato, dipendenti con contratti a termine, esposti a discontinuità e con posti di lavoro “deboli”. Se il bonus fosse stato esteso a queste tipologie di lavoratori, l’aggravio per la finanza pubblica sarebbe stato di circa un miliardo ma l’impatto sul reddito disponibile e sulla povertà sarebbe stato di tutto rilievo, come è facile intuire pensando all’incidenza di 80 euro mensili netti su redditi estremamente bassi. È da notare che, per questa esclusione, non è stata data (né peraltro chiesta) alcuna giustificazione.
Il fatto poi che il bonus sia riservato ai dipendenti e assimilati non a basso reddito, cioè a categorie che tra assicurazioni sociali ed entità della retribuzione lorda presentano in generale un rischio di povertà decisamente inferiore a quello di altre categorie, qualifica l’istituto – il cui costo, come si è detto, supera i 9 miliardi annui – come inefficiente in termini di contrasto alla povertà, oltre che di azione redistributiva (il recente strumento specifico anti povertà, il Sia 2017, divenuto Rei dal 2018, attribuisce ai nuclei definiti poveri circa 1,8 miliardi annui e si tratta probabilmente di una sovrastima se si considera la consueta griglia di requisiti molto stringenti richiesti per fruirne, che tende a deludere le aspettative create dagli annunci).
Non solo. Per svolgere un’azione redistributiva e contrastare la povertà uno strumento dovrebbe essere erogato in base a uno o più indicatori appropriati per identificarla. E invece il bonus, in cifra fissa nel range di fruizione non decrescente (attualmente 8.150-24 mila euro), è attribuibile in base a un mix di reddito di specie e “reddito complessivo”, l’indicatore reddituale individuale Irpef sulla cui inadeguatezza come misuratore del tenore di vita tutti concordano – a maggior ragione dopo le ripetute esclusioni di significative fattispecie reddituali. D’altronde, per gli assegni familiari, per il Sia/Rei e per la misura della compartecipazione ai servizi pubblici sono stati definiti indicatori diversi, ma accomunati da alcune caratteristiche, quali il riferimento alla globalità dei redditi, alle scale di equivalenza e all’ambito familiare.
Senza contare che i limiti reddituali che governano l’acquisizione e la perdita determinano paradossali effetti redistributivi. Da un lato, la corresponsione del bonus al superamento della soglia di 8.150 euro annui determina una forte aliquota marginale implicita di segno negativo, in pratica un aumento di reddito di 960 euro netti in seguito anche a un solo euro in più guadagnato. Dall’altro, la crescita del reddito per chi si colloca nell’intervallo di decrescenza tra 24 mila e 26 mila euro fa scattare un’ulteriore aliquota marginale implicita del 48%, che si somma alle aliquote nominali Irpef (27%) e delle addizionali (attorno al 2,5%), a quella dei contributi previdenziali a carico del lavoratore (9,2%), alle aliquote implicite variabili generate dalle decrescenze delle detrazioni per lavoro dipendente e per familiari a carico, oltre che dagli assegni familiari; inoltre, l’aumento del reddito può comportare anche aggravi in termini di compartecipazione ai servizi pubblici agevolati.
Ne deriva che nel range di reddito dove il bonus fruito è di importo decrescente e nel quale ricadono quasi 1,2 milioni di dipendenti e collaboratori, l’aliquota effettiva complessiva si avvicina al 100%, in pratica annullando gli effetti in busta paga di eventuali aumenti, contrattuali o di carriera, e incentivando anche scelte inefficienti in termini di offerta di lavoro. È probabilmente per questo motivo, in vista anche degli imminenti aumenti contrattuali del pubblico impiego, che il governo ha varato un ddl di bilancio che prevede uno slittamento in avanti dell’intervallo di decrescenza, da 24.600 a 26.600 euro, per una maggior spesa complessiva di oltre 300 milioni l’anno. In tal modo, i circa 260 mila dipendenti pubblici appartenenti a quell’intervallo di reddito vedrebbero ridotta la quota di aumento contrattuale falcidiata dall’aliquota marginale effettiva creata dal bonus 80 euro.
Nel grafico che segue è possibile osservare la distribuzione per decimi di redditi equivalenti (dai più poveri ai più ricchi) dell’incidenza del maggior bonus in rapporto al reddito lordo degli interessati. Come è intuibile, il maggior beneficio (modestissimo in percentuale dell’intera platea) si concentra sui redditi intermedi, mentre il 10% più povero, nel quale è già presente la maggior quota dei non aventi diritto al bonus, è escluso anche da questa variante.
Ma non è tutto. L’intervallo di decrescenza del bonus resterà della stessa ampiezza (cioè di 2 mila euro), così come sarà identico il bonus annuo pieno (960 euro); ne deriva che resterà purtroppo anche la medesima aliquota marginale specifica del 48% (cioè 960 euro persi al crescere di 2 mila euro di reddito), implicita nella decrescenza del bonus. Di conseguenza, qualsiasi dipendente che dovesse avere in futuro un aumento contrattuale o di carriera all’interno del nuovo range subirebbe la stessa tagliola costituita dalla sostanziale invarianza del reddito effettivamente disponibile; mentre quelli che non dovessero ricevere aumenti, beneficerebbero inaspettatamente di un aumento del bonus fruito (e per una quota preponderante della citata maggior spesa pubblica di 300 milioni).
I difetti, da molti rilevati, del sistema italiano di imposizione personale, e più in generale di imposte e benefici per persone e famiglie, si sarebbero potuti correggere parzialmente in termini di aliquote marginali, a un costo per la finanza pubblica contenuto (non più di un miliardo), semplicemente aumentando il range di decrescenza del bonus da 24 mila-26 mila euro a 24 mila-27 mila euro. Ne sarebbe derivata un’aliquota specifica implicita ancora alta, ma ridotta (32% anziché 48%), e un beneficio più correttamente spalmato tra dipendenti privati o pubblici, con o senza aumento stipendiale. In alternativa, si sarebbe potuta rimuovere l’incomprensibile e iniqua esclusione dal beneficio di dipendenti e parasubordinati a più basso reddito, con un costo analogo e effetti redistributivi di gran lunga preferibili.
Questo intervento, in definitiva, sembra confermare la tendenza del decisore politico ad affrontare ogni problema in modo scollegato, al di fuori di strategie complessive e di più lungo periodo, capaci di assicurare il perseguimento di fini più ambiziosi. Il riferimento è, in particolare, al graduale assorbimento del bonus 80 euro nell’ambito della correzione di un sistema tax benefit che presenta numerosi difetti, sotto il profilo dell’equità, dell’efficienza e della competitività del sistema.
Fernando Di Nicola è Consigliere per le politiche fiscali presso il Dipartimento delle Finanze (Mef)