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L’eccezionale liquidità di cui dispongono gli intermediari finanziari nelle aree in cui si è abbattuta la crisi continua a essere investita nelle attività speculative più che a sostegno delle attività produttive. Così oggi si scommette contro la tenuta del sistema economico della Grecia, domani forse contro quella di Spagna o Italia e tutto procede come se la crisi non avesse insegnato niente e anzi sembrano aver ripreso vigore comportamenti speculativi da parte delle istituzioni finanziarie che accumulano profitti in presenza di un’economia generalmente fragile e incerta, mentre è ancora in alto mare la messa in opera di nuovi strumenti di regolazione e di vigilanza sui mercati. Questo è il tema dell’intervista a Marcello Messori, ordinario di Economia politica all’Università di Roma Due.
Rassegna Come fare in modo che questa liquidità venga impiegata a favore della ripresa economica?
Messori Va premesso che una delle conseguenze della crisi finanziaria è stata un’immissione estremamente da parte delle banche centrali delle principali aree economiche; si potrebbe anzi sostenere che, fino a marzo 2008, il finanziamento dipolicy delle banche è stato il principale – se non l’unico – intervento di contrasto della crisi. Tale politica, che ha gonfiato i bilanci delle banche centrali, non potrà proseguire indefinitamente. L’auspicio è che la riduzione di liquidità sia graduale nel tempo e ben calibrata nel volume così da non provocare effetti restrittivi traumatici per l’economia reale. Non a caso le autorità monetarie hanno più volte “tranquillizzato” i mercati, affermando che non vi saranno restrizioni monetarie se non in presenza di una ripresa robusta. Di fatto però, molte banche centrali hanno già incominciato a rendere più onerose le condizioni di finanziamento per il settore bancario. Ciò premesso, va sottolineato che il problema dell’allocazione della liquidità non è di competenza né delle banche centrali né dei responsabili di politica monetaria, bensì degli intermediari finanziari e – in particolare – delle banche.
Rassegna Come spingere gli intermediari a svolgere questa funzione visto che ultimamente hanno fatto tutt’altro e che ancora oggi sembrano preferire un’ottica di breve periodo e le attività speculative piuttosto che quelle produttive?
Messori Credo che non vi siano scorciatoie per affrontare questo problema, che ha aspetti strutturali e che ha contribuito fortemente alla crisi finanziaria. La tentazione, che spesso serpeggia al riguardo, è di attribuire alla mano pubblica o – più specificamente – ai responsabili della politica economica poteri decisionali nell’allocazione delle risorse liquide e, quindi, nella selezione degli investimenti. L’idea sottostante a questa posizione è che, a differenza degli operatori privati, i soggetti pubblici perseguano obiettivi di sistema di medio-lungo termine e dispongano di migliori informazioni per distinguere gli investimenti produttivi da quelli speculativi. Molti studi hanno provato che, in genere, così non è. Specie in un paese come l’Italia, caratterizzato da periodi brevi di governo e da un’estrema frammentazione delle imprese investitrici, la mano pubblica non è né più lungimirante né meglio informata degli attori di mercato. L’uso dissennato di strumenti derivati da parte di vari enti locali è, al riguardo, un fatto emblematico. Ciò non significa che l’allocazione della ricchezza finanziaria vada affidata ai soli meccanismi di mercato. Innanzitutto, l’intervento pubblico può svolgere un ruolo essenziale per migliorare l’ambiente, nel quale si realizza il finanziamento degli investimenti e delle attività produttive; e, così facendo, può fungere da volano anche per risorse private. L’esempio più ovvio è dato dalle infrastrutture materiali e immateriali, nelle quali l’Italia soffre di un pesante e crescente divario rispetto al resto dell’Europa.
Rassegna Rimane comunque il problema della intermediazione di mercato per trasformare il risparmio in investimenti produttivi
Messori La soluzione non può essere uno Stato “imprenditore finanziario” bensì uno Stato “regolatore”. Una regolamentazione rigorosa dei mercati finanziari dovrebbe avere come obiettivo la ridefinizione delle convenienze per le banche e, in generale, per gli intermediari finanziari spostandole verso strategie di medio-lungo termine e verso il sostegno delle attività con maggior potenziale di crescita. In altre parole, si tratta di rendere più onerosa una strategia finanziaria di breve termine e speculativa rispetto a una di lungo termine e volta al sostegno di attività produttive efficienti. Uno dei possibili strumenti di tale regolamentazione è l’imposizione alle banche di più onerosi requisiti di capitale nel caso finanzino attività speculative o – a maggior ragione – effettuino trading per conto proprio.
Rassegna Si riferisce a una sovratassazione delle attività finanziarie a carattere speculativo?
Messori Una tassa speciale può servire alla creazione di un fondo di garanzia per evitare il fallimento di gruppi di banche o per limitarne l’impatto sul resto del sistema. In genere, la tassazione è però uno strumento di intervento difficile da maneggiare a causa degli effetti distorsivi che comporta. Già l’attuale regime di aliquote differenziate sui rendimenti finanziari introduce rilevanti distorsioni nel funzionamento dei mercati finanziari nazionali. Prima di pensare a ulteriori differenziazioni a fini di disincentivo, si tratterebbe quindi di fissare un’aliquota unica sui rendimenti finanziari. Credo invece che vi sia spazio per forme di regolamentazione capaci di modificare le convenienze relative degli intermediari, senza dover far ricorso alla tassazione e senza ipotizzare meccanismi troppo complicati. Ad esempio, in tema di requisiti di capitale, si può pensare di porre un tetto al leverage (ossia al tasso di indebitamento rispetto al patrimonio) degli intermediari finanziari; e, dato questo tetto, si potrebbero poi pesare i requisiti di capitale in base alle classi di rischiosità degli attivi di bilancio.
Rassegna Sarebbero gli stessi operatori finanziari a indicarle?
Messori Prima della crisi la rischiosità delle diverse componenti dell’attivo di una banca poteva essere calcolata mediante un “modello interno” alla banca stessa o mediante agenzie di rating. Uno degli insegnamenti della crisi finanziaria è che le agenzie di rating non dovrebbero più svolgere ruoli di autoregolamentazione. D’altro canto, la crisi ci ha anche insegnato che troppo spesso gli intermediari sottovalutano vari tipi di rischio. Penso perciò che il regolatore, preposto alla stabilità, dovrebbe essere in grado sia di controllare e replicare i risultati di ciascun modello proprietario sia di sostituirsi alle agenzie di rating nel caso di intermediari privi di un proprio modello.
Rassegna C’è anche chi propone di ritornare alla specializzazione creditizia, vietando che lo stesso gruppo possa svolgere molteplici attività, a volte in potenziale conflitto di interesse fra di loro.
Messori Invece di cercare una risposta generale, mi limito a notare tre aspetti (gli ultimi due dei quali sarebbero un regalo agli intermediari). Primo, è difficile attuare nel concreto una separazione fra attività bancarie spesso intrecciate o sovrapposte. Secondo, anche se si riuscisse a farlo, si ripristinerebbero mercati molto segmentati e con forti rendite da sfruttare. Terzo, dimenticando che durante la crisi finanziaria sono state le banche di investimento a spingere nel gorgo quelle universali – e non viceversa – con la separazione si rischierebbe di regolare severamente le seconde e non le prime ripristinando così le condizioni per una nuova crisi. Perciò, piuttosto che imporre una separazione, consiglio di ricorrere a regole che rendano più costoso per uno stesso gruppo bancario associare attività in palese conflitto di interessi (per esempio: prestiti tradizionali e trading proprietario). Anche in questo caso, si tratterebbe di richiedere requisiti di capitale sufficientemente severi da tutelare i risparmiatori. Insomma, più che vietare è meglio disincentivare. Gli intermediari finanziari dovrebbero essere messi in condizione di trovare conveniente l’utilizzo delle informazioni economiche, di cui dispongono, a sostegno della crescita e dello sviluppo economico anziché della speculazione.
Rassegna Cioè spingere in discesa anziché in salita, come si dice, manovra però più complessa rispetto a una regolamentazione fatta soprattutto di divieti...
Messori È vero, soprattutto perché gli incentivi spesso causano risultati non previsti. Pertanto, per perseguire credibilmente questa strada e minimizzare le possibilità di errore, sarebbe almeno necessario definire un efficace insieme di regole e dotarsi di efficienti sistemi di applicazione di tali regole ossia di efficienti sistemi di vigilanza.
Rassegna Quali sono gli orientamenti di Europa e Stati Uniti nei confronti di una nuova regolamentazione?
Messori Si è creata un’ampia convergenza fra gli esperti, ma manca la traduzione politica in un disegno complessivo e condiviso. Basti l’esempio delle recenti polemiche fra Stati Uniti ed Europa continentale riguardo alla regolamentazione degli hedge funds. Anche i progetti di ridisegno dei sistemi di vigilanza sono divergenti fra Europa e Stati Uniti. In Europa la vigilanza è ancora incardinata sui singoli Stati membri. Si tratta quindi di trovare un punto di equilibrio tra le competenze nazionali e forme di vigilanza sugli intermediari transnazionali. Gli Stati Uniti invece accusano un numero eccessivo di autorità che sovrappongono le loro competenze sia a livello statale che federale, creando anche “buchi” clamorosi di vigilanza; qui la scommessa consiste in una semplificazione e in una divisione del lavoro più rigorosa fra le varie autorità.
Rassegna Vorrei tornare a una questione di politica economica che riguarda il nostro paese. Se è vero che lo Stato non è più in grado di mettere a bilancio grandi interventi nell’economia, come avvenuto con l’Iri e con l’Eni nel dopoguerra, si può pensare a una forma nuova e agile d’intervento pubblico, ad esempio una rete di agenzie, capace di attirare capitali del settore privato che vengono investiti in attività promettenti, anche se rischiose, come start up o imprese operanti nei settori a maggiore crescita?
Messori Ben prima dello scoppio della crisi finanziaria e “reale”, l’Italia ha accusato gravi limiti di crescita economica: dal 1995 a oggi il suo tasso di incremento del Pil è stato inferiore a quello realizzato nell’area a minor crescita al mondo, cioè l’area europea. Questa stagnazione quasi ventennale è legata a vari fattori, sintetizzabili nel fatto che il nostro sistema economico è stato incapace di adattarsi al nuovo regime imposto da tre novità: la costruzione dell’euro, che ha posto fine alle svalutazioni competitive della lira e al riprodursi di ingenti deficit di bilancio pubblico; il cambiamento innovativo e organizzativo indotto dalla Information and communication technology (Ict) che ha impedito il riprodursi dei processi di imitazione e ha fatto emergere le fragilità delle nostre piccole imprese; l’irruzione nei mercati internazionali di paesi emergenti a basso costo del lavoro, che ha messo in crisi la specializzazione tradizionale del nostro apparato produttivo. Sono interessanti, al riguardo, due indicatori. Dalla seconda metà degli anni Novanta fino ad oggi, l’Italia è stato il paese economicamente avanzato con la più bassa quota di investimenti in Ict. Anche come conseguenza di ciò, in Italia da oltre sedici anni la produttività del lavoro è rimasta stagnante e ha cessato, così, di essere fra le più elevate al mondo. Negli ultimi anni, seppure con grave ritardo rispetto agli Stati Uniti e al resto dell’Europa, una parte rilevante del nostro sistema produttivo aveva comunque avviato processi di ristrutturazione. La crisi ha interrotto tali processi o li ha resi costosi; e il dopo crisi rischia di distorcerli. In particolare: è difficile allocare in modo efficiente le risorse finanziarie, discriminando fra piccole imprese in crisi irreversibile e piccole imprese in crisi temporanea perché bloccate nel corso del processo di cambiamento. L’obiettivo dell’intervento pubblico non può che essere quello di spingere le banche a perseguire obiettivi di medio-lungo periodo così da allineare, per quanto possibile, gli interessi bancari con quelli delle imprese con maggiore potenziale di crescita.
Rassegna Rimane cioè l’esigenza di un indirizzo pubblico nell’economia...
Messori Certo, c’è bisogno di una nuova politica industriale di tipo sia “orizzontale” che “verticale”. A livello “orizzontale”, lo Stato deve costruire “esternalità” positive per il sistema produttivo: razionalizzazione della pubblica amministrazione, erosione delle rendite specie nei servizi, miglioramento del sistema educativo, miglioramento della giustizia per le imprese, realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali. Molti di questi interventi sarebbero a costo finanziario minimo o potrebbero attirare risorse private. A livello “verticale”, lo Stato deve disegnare strumenti molto selettivi e assai poco discrezionali così da utilizzare al meglio le limitate risorse disponibili. Per illustrare ciò che ho in testa utilizzo un esempio un po’ provocatorio. Nel nostro paese si sono accumulati nel tempo molti incentivi a favore della piccola e piccolissima impresa. Alla luce delle precedenti considerazioni, una parte di tali imprese è però priva di prospettive. Potrebbe allora essere efficace trasformare questi incentivi in un premio alla crescita dimensionale delle imprese, assegnandoli cioè solo alle piccolissime che diventano piccole e alle piccole che diventano piccolo-medie secondo parametri pre-definiti e noti. Naturalmente una soluzione del genere, che nel medio e lungo periodo gioverebbe a tutti perché aumenterebbe il potenziale di crescita del paese, avrebbe un immediato costo sociale per i lavoratori delle imprese colpite dalla selezione. Essa andrebbe quindi accompagnata da forme universalistiche ed efficaci di tutela e di riqualificazione dei disoccupati.
Rassegna La crescita non c’è, ma già oggi si ragiona sul fatto che essa comporterà minore occupazione rispetto al passato perché le imprese si ristrutturano risparmiando sul lavoro...
Messori Gli effetti negativi sull’occupazione di una crisi profonda, come quella attuale, sono almeno due. Primo: il ritardo iniziale dell’impatto della crisi sul mercato del lavoro si traduce in un ritardo anche nel manifestarsi degli effetti positivi della ripresa; ecco perché il 2010 sarà comunque pessimo sotto il profilo occupazionale. Secondo: per sopravvivere alla crisi, le imprese devono accrescere la loro efficienza, cioè produrre la stessa quantità di beni con meno occupati o una maggiore quantità di beni con gli stessi occupati. Questo secondo elemento più strutturale fa sì che nel dopo-crisi il tasso di crescita del sistema economico, necessario per mantenere inalterati i livelli di occupazione, è maggiore rispetto al passato. Ciò rende necessario approntare quegli strumenti universalistici di tutela, cui accennavo poco sopra, definibili per brevità “ammortizzatori sociali”. Tali strumenti sono infatti essenziali non solo per una questione di equità, ma anche per rendere possibile la transizione verso un nuovo assetto di medio-lungo periodo caratterizzato da un maggiore potenziale di crescita economica. Il problema occupazione rischia di diventare drammatico in paesi come l’Italia, dove il potenziale di crescita economica è stato per molto tempo così basso da non essere facilmente modificabile. In casi del genere l’inevitabile ristrutturazione delle imprese potrebbe sfociare in un’irreversibile riduzione della base produttiva nel dopo crisi. Insomma, senza una politica industriale efficace, il rischio è di uscire dalla crisi con un minor numero di imprese e con lo stesso potenziale di crescita precedente; il che implicherebbe un’occupazione strutturalmente più bassa.