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Durante la grande assemblea di giovedì pomeriggio davanti ai cancelli delle acciaierie di viale Brin un lavoratore ha chiesto la parola, si è avvicinato al microfono e ha mostrato alle centinaia di lavoratori raccolti tutti intorno i 7 fogli dell’ipotesi di accordo che il governo ha presentato a Thyssen e ai sindacati al tavolo della vertenza Ast. Li ha sollevati perché tutti potessero vederli e poi li ha strappati con forza, riscuotendo l’ovazione, forse la più energica, dell’immensa platea di operai ammassati in strada.
La mediazione del governo è stata bocciata, in primo luogo dai lavoratori di Ast. Questo è un dato di fatto. Nel corso dell’assemblea, naturalmente molto tesa, gli unici passaggi contestati, ad esempio nell’intervento di Marco Bentivogli, segretario nazionale Fim Cisl, sono stati quelli in cui si rilanciava l’ipotesi di fare affidamento su palazzo Chigi, su Renzi e sul governo per riaprire la trattativa in una direzione accettabile per gli operai ternani. “In questa battaglia il governo è la nostra contropart,e quanto l’azienda”, ha detto un altro lavoratore molto applaudito, un concetto peraltro ripreso e condiviso poi nelle loro conclusioni dai rappresentanti di tutte le organizzazioni sindacali con una richiamo forte all'unità tra i lavoratori.
Ma perché l’ipotesi di accordo presentata dal governo ha suscitato una reazione così netta da parte degli operai di Ast? Perché nessuna organizzazione sindacale (nemmeno Fismic e Ugl) ha ritenuto quella mediazione accettabile come base di partenza? Proviamo a capirlo analizzando nel dettaglio il testo presentato dal governo (che si può scaricare qui in versione integrale), con l’ausilio di Rosario Rappa, segretario Fiom nazionale, che ha seguito in prima persona tutta la trattativa al Mise.
“La premessa necessaria – spiega Rappa – è chiarire che nessuna delle richieste da noi avanzate è stata minimamente tenuta in conto. A partire dall’esigenza di avere dettagli sui 110 milioni di euro di investimenti previsti”. Nella proposta di accordo del governo si legge infatti che “Ast conferma il Piano di investimenti presentato il 17 luglio 2014”, ma non c’è nulla sulle quantità precise di acciaio che si vogliono produrre, né sul rapporto tra produzioni di “bianco” e “nero”, cioè tra produzioni a maggiore e minore valore aggiunto. “Si parla di quantità medie prodotte negli ultimi anni – prosegue Rappa – ma questo non chiarisce le prospettive: una cosa è fondere 1 milione e 200mila tonnellate per spedirne intorno a 1 milione, quindi avere un certo tipo di saturazione degli impianti, tutt’altra cosa è fonderne 800mila”.
Insomma, quantità precise, investimenti dettagliati (“per esempio – si chiede Rappa – nei 110 milioni rientra anche la manutenzione ordinaria?”): questo chiedeva il sindacato e questo nella bozza di accordo del governo non ha trovato. A simili condizioni, l’elemento di per sé positivo dello spostamento da Torino della linea 5 (quella tristemente famosa per la tragedia del 2007) non offre garanzie sufficienti. “Il punto è capire se il piano industriale di luglio, per noi irricevibile, è cambiato o no – osserva ancora Rappa – e dal testo proposto dal governo questo non si capisce”.
Poi c’è la parte più delicata, quella degli organici, che secondo i sindacati andava evidentemente legata a doppio filo alla questione investimenti. “Invece, l’impostazione della dottoressa Morselli (l’ad di Ast, ndr) è stata questa – spiega ancora Rappa – siccome devo abbattere i costi di 100 milioni di euro l’anno, 60 li ricavo dalle partite aziendali (per esempio materie prime, rete commerciale, etc.), ma altri 40 milioni li devo recuperare dal costo del lavoro”. Qui, l’unico avanzamento ottenuto dal governo è stato quello di abbassare da 40 a 30 questa partita, ma anche qui con il trucco, sostiene Rappa: “Morselli è stata chiara al tavolo – spiega – siccome l’obiettivo è 40 milioni e su quello l’azienda non è disponibile a trattare, i 10 milioni in meno da tagliare sui lavoratori diretti li avrebbe recuperati nell’indotto, tanto che ha posto come condizione una riduzione del 20% dei contratti di tutte le ditte ‘terze’”. E chi non si adegua entro il 30 ottobre è fuori dall’appalto.
Così i conti tornano: 570 esuberi per 55mila euro l’anno a dipendente (questo il costo del lavoro per Thyssen su Terni) fanno circa 31 milioni di euro. Altri 10 dagli appalti e sto. Dopodiché, se si vuole far scendere il numero, le risorse devono uscire da qualche altra parte. Quindi il concetto espresso dalla multinazionale è stato: volete ridurre gli esuberi? Allora tagliamo l’integrativo aziendale, e da lì ricaviamo il risparmio equivalente ai posti di lavoro “risparmiati”.
Per questo nel documento del governo, al capitoletto intitolato “Misure a salvaguardia dell’occupazione” (sic!) si legge che “le parti concordano di conseguire un risparmio sul costo del lavoro a valere sul contratto integrativo di secondo livello”. Quindi, fatte salve le maggiorazioni (ma non l'indicizzazione) per il lavoro notturno e festivo, non si parla di domeniche, fatto “sospetto” secondo i sindacati, che temono in questo caso un azzeramento delle maggiorazioni. Mentre tutte le altre voci variabili del trattamento integrativo vanno “riviste secondo criteri di variabilità da definirsi tra le parti in sede aziendale, atteso che tutte le parti condividono di dover garantire il raggiungimento degli obiettivi economici del piano industriale”.
Tradotto: il salario integrativo praticamente scompare. “Abbiamo sfidato al tavolo di trattativa Thyssen e governo a trovare in Italia una sola azienda siderurgica che lavora senza integrativo. Se ci fossero riusciti avremmo firmato immediatamente l’accordo, ma non esiste”, commenta Rappa. “La realtà è che il ragionamento dell’azienda è sempre stato puramente finanziario: dobbiamo tagliare 30 milioni, più 10 dall’indotto. Se volete 290 esuberi anziché 570 dovete tagliare il salario, se non volete tagliare il salario restano gli esuberi”.
Infine, c’è il nodo della gestione dei tagli occupazionali. Un’altra condizione posta dall’azienda, anche qui senza precedenti secondo i sindacati, è stata quella di dire: una volta stabiliti gli esuberi (290 o 570 a seconda delle scelte) si apre una fase volontaria di mobilità incentivata (nessun accenno alla misura dell’incentivo, però), ma se dopo 2 anni non tutti quelli che se ne dovevano andare hanno effettivamente lasciato il lavoro, allora deve esserci da subito un via libera ai licenziamenti. Rappa ricorda che con la stessa Morselli, nella trattativa, pure dolorosa, per la Berco a Ferrara, si stabilì che passato il periodo di mobilità volontaria le parti sarebbero tornate a fare il punto e trattare su eventuali ulteriori esuberi. “Ma dare carta bianca da subito sui licenziamenti è qualcosa di mai visto”, commenta ancora il segretario della Fiom, sottolineando come il sindacato abbia messo sul tavolo una proposta alternativa, peraltro adottata recentemente con successo per Electrolux, che avrebbe consentito addirittura un risparmio superiore all’azienda: quella dei contratti di solidarietà incentivati (con sgravi sulla contribuzione). Ma su questa soluzione, probabilmente non nota all’azienda, il governo ha “sorvolato”, forse, suggerisce Rappa, per non dover mettere mano a risorse proprie da investire nella difesa dell’occupazione.
Ecco qui svelato il perché di quella rabbia in assemblea e dell’atteggiamento fermo dei sindacati rispetto alla mediazione del governo, che poi di mediazione ha ben poco se le richieste di parte sindacale sono rimaste tutte inascoltate. Ma vale la pena di concludere dicendo forse la cosa più importante e cioè che di fronte al “lodo” Guidi-Del Rio la prima ad alzarsi e sbattere la porta è stata proprio l’azienda, che ha giudicato il testo non adeguato. Un fatto sufficiente di per sé a smontare gli attacchi strumentali che già stanno colpendo i lavoratori di Terni e le loro organizzazioni.