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Non sono solo i lavoratori a risentire degli effetti della cosiddetta Legge Fornero (n. 92/2012), entrata in vigore il 18 luglio scorso - che di fatto mette mano all'articolo 18, sancendo l'obbligatorietà del reintegro sul posto di lavoro solo nel caso di un licenziamento discriminatorio (mentre prima valeva il reintegro anche nel caso di un licenziamento illecito, ovvero la cui causa non era ritenuta giustificata dal giudice). Anche la giurisprudenza deve barcamenarsi per riportare “all'ordine” - passi il gioco di parole – una riforma che pone molti punti interrogativi sulla sua interpretazione, lasciando a giudici ed avvocati non poche gatte da pelare.
L' “effetto-Fornero” è stato discusso in una tavola rotonda promossa dall'Agi (Avvocati giuslavoristi italiani-Lazio), Magistratura Democratica e Rivista giuridica del Lavoro e della Previdenza sociale della casa editrice Ediesse, e composta da “tecnici”, ovvero avvocati, giuslavoristi e professori universitari, presso la Corte di Cassazione di Roma, il 5 dicembre scorso.
Secondo Michele De Luca, Presidente titolare della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha introdotto e moderato il dibattito, l'ambito processuale in tema di licenziamento discriminatorio e illegittimo è schiavo di “un eccessivo formalismo che va a discapito dei lavoratori”. Lo ha dimostrato, recentemente, il caso Fiat. Ma non solo. Il problema, a ben guardare, riguarda una poca chiarezza della nuova legge sui casi specifici a cui far riferimento: la Legge Fornero, infatti, rimanda a legislazioni precedenti e differenti a seconda della discriminazione (che sia per motivi di genere, razza o religione) e lascia così adito a diverse interpretazioni, causando differenze di giudizio anche notevoli. “Inizialmente – ha spiegato De Luca – il licenziamento discriminatorio avveniva principalmente per ragioni sindacali e politiche, poi vennero i fattori religiosi, come nel caso di professori conviventi licenziati da istituti religiosi, e per motivi di orientamento sessuale e di genere. Ora invece sta esplodendo il motivo legato all'età del lavoratore, tanto che se ne è parlato in un recente convegno all'Aia”.
Quale che sia il motivo della discriminazione o dell'illegittimità del licenziamento quello che è certo, come evidenziato dall'intervento di Marzia Barbera, docente all'Università di Brescia, è che tutto si riduce a una visione economicista della pena, ovvero alla 'ammenda' pecuniaria, più o meno alta, che spetta al datore di lavoro che discrimina, senza tenere in considerazione che il diritto al lavoro e a “non subire un licenziamento ingiustificato si situa nell'ambito del diritto ben più ampio all'autonomia individuale. Chi viene licenziato – sottolinea infatti la studiosa – perde molto di più dello stipendio. È inaccettabile, quindi, che gli altri diritti messi in gioco vengano ridotti al rango di meri interessi patrimoniali. La tutela antidiscriminatoria, infatti, è una bussola sociale molto importante e così ridotta potrebbe perdere parte della sua forza”.
In parole semplici, se passa il concetto, avallato dalla legge, che chi licenzia senza giustificato motivo paga al lavoratore solo sei mesi di stipendio e/o un'ammenda liquidatoria, senza l'obbligo del reintegro, se non nei casi di discriminazione accertata, questo potrebbe comportare non solo un aumento quantitativo dei licenziamenti, ma anche un'implicita riduzione della sfera lavorativa e personale del licenziato a “merce da rimborsare o liquidare”.
“L'attualità in cui si è venuta a trovare la materia del licenziamento discriminatorio – spiega Marco Marazza, professore all'università di Teramo – ci fa riflettere sulla frammentarietà della legislazione discriminatoria, che impatta sull'articolo 18 in maniera ancora imprevedibile”. Basti pensare al fatto che l'elencazione dei fattori discriminatori (razza, etnia, sesso ecc...) non ha un valore tassativo per legge. “Questo – secondo Marazza – ha dei fattori di rischio ampi”, come per esempio nel caso della rilevanza dell'elemento psicologico e della motivazione (quest'ultima diventata molto importante con la legge-Fornero), che è difficile da affermare nei casi di discriminazioni indirette. “Se prendiamo i dati sull'occupazione femminile, per esempio, non sarebbe difficile vedere atteggiamenti differenti all'interno delle aziende nei criteri di assunzione”.
Quello che è certo, come sottolineato dall'intervento di Valerio Speziale, professore all'università di Pescara, è che va anche considerato “l'elemento di dignità e non solo patrimoniale, che attiene al licenziamento, come sottolineato dalla nostra Costituzione”. In questo senso l'applicazione, o meglio le applicazioni, della riforma dell'articolo 18, saranno un bel banco di prova di quello che sarà il valore del lavoro nel prossimo futuro.