PHOTO
Il caso di sparizione forzata del giovane argentino Santiago Maldonado durante una manifestazione di protesta nella proprietà del Gruppo Benetton, nella Patagonia argentina, ripropone due questioni storiche che continuano a tormentare i paesi latinoamericani: il diritto al territorio indigeno e i desaparecidos.
Il Gruppo Benetton nel 1991, attraverso la propria holding Edizione, ha acquistato, per 50 milioni di dollari americani, le terre della Compañia de Tierras del Sur de Argentina (CTSA), una proprietà di quasi un milione di ettari, la più estesa proprietà terriera di tutta la Repubblica d’Argentina, tanto da essere chiamata la “24esima provincia”dello stato federale. Su queste terre il Gruppo Benetton produce circa il 10% delle lane poi trasformate in capi d’abbigliamento per i propri marchi. Ma oltre alle 280 mila pecore, 16 mila bovini, 8.500 ettari coltivati a soia, quelle terre sono ricche di minerali e di altre risorse naturali. Fanno parte di quello che è stato il territorio Mapuche, il principale popolo pre-colombiano che ha resistito alle invasioni, prima degli Incas e poi della Corona Spagnola, difendendo uno spazio fisico che dal Pacifico attraversava la Cordillera andina per arrivare all’Atlantico, senza frontiera alcuna, per poi capitolare solamente alla fine del XIX secolo, nelle guerre contro Cile (Pacificación de la Araucania, 1883) ed Argentina (Conquista del Desierto, 1885).
Da allora la storia dei Mapuche ha seguito la stessa sorte degli altri popoli pre-colombiani conquistati e spogliati delle loro culture e delle loro terre. Prima condannati alla schiavitù e ai lavori forzati durante il periodo coloniale, poi, con l’indipendenza e con la costituzione degli stati nazionali, nel XIX secolo, hanno dovuto affrontare un processo di acculturazione e di accettazione delle nuove identità e istituzioni nazionali, che li ha relegati a cittadini di seconda serie, emarginati, sfruttati e discriminati. Le frontiere degli stati nazionali hanno diviso i Mapuche tra Cile e Argentina, come gli Aymara tra Bolivia, Cile, Perù, o i Guaranì tra Paraguay, Bolivia e Argentina, o i Quechua tra Perù, Bolivia, Ecuador, Colombia, distruggendo legami e relazioni tra famiglie, tra comunità, proibendo la libera mobilità e una economia basata sullo scambio e sul controllo dei “diversi piani ecologici”.
Dalla Conquista, alla colonia, agli stati indipendenti, è stato un susseguirsi di accordi, trattati, intervallati da continui tradimenti, ribellioni e violente repressioni, dove le popolazioni indigene hanno cercato di recuperare la propria identità e i propri territori. Prima la colonia e poi gli stati nazionali hanno agito a difesa delle proprie conquiste, forti della potenza militare e di una nuova egemonia culturale. Un conflitto che ha posto domande di etica e di morale, oltre che di giustizia, non solamente a intellettuali e accademici, ma alle stesse istituzioni e ai governi, facendo sì che nel corso del secolo scorso la comunità internazionale e i singoli stati si siano dotati di strumenti giuridici, quali, tra gli altri, la Convenzione per i diritti dei popoli indigeni Onu, la Convenzione Oil 169, le modifiche alle costituzioni nazionali, le leggi indigene e la costituzione di fondi per il recupero dei territori indigeni.
L’obiettivo di queste iniziative, in sintesi, è sempre stato quello di trovare, per la via del diritto, una mediazione che potesse dare delle risposte senza mettere in discussione gli attuali assetti istituzionali (stati nazionali), concedendo alcuni riconoscimenti di carattere culturale, si pensi all’uso della propria lingua, al riconoscimento della medicina indigena, in alcuni casi delle autorità indigene e della proprietà collettiva per le comunità originarie, dell’educazione bilingue e interculturale e, per quanto riguarda la terra, consegnando attraverso programmi di sviluppo e di ricollocazione delle comunità indigene, una piccola, ma veramente piccola, parte dei terreni espropriati nel corso di questi secoli.
Nel caso dei Mapuche, che coinvolge le regioni del sud di Argentina e Cile, il conflitto per la terra non si è fermato o assopito, neanche con i tentativi della “Ley de Politica Indigenas y apoyo a las comunidades aborigenas” del 1985 in Argentina o con la “Ley Indigena del 1993” in Cile.
Lo scarto tra le rivendicazioni dei discendenti dei Mapuche e ciò che le istituzioni dei due stati hanno concesso è abissale. Ragion per cui, dalla fine delle dittature militari, sia in Argentina che in Cile, le comunità indigene e in particolare quelle Mapuche hanno ripreso a organizzarsi e a confrontarsi con le istituzioni nazionali, attraverso rivendicazioni e proteste pacifiche ma anche dando vita a movimenti e azioni violente, rivendicandone la legittimità, dall’occupazione delle terre dei latifondisti ad atti di sabotaggio alle aziende agricole e forestali, esasperando così il conflitto e fornendo alle forze più reazionarie di questi paesi la possibilità di criminalizzare la protesta e di dar corso alla peggior repressione (in Cile l’accusa è quella di terrorismo, con carcere immediato e condanne pesantissime). La terra per queste popolazioni è stata e rimane una questione centrale, non solamente per l’aspetto economico ma soprattutto per il significato culturale e religioso.
Il conflitto che da anni è in corso tra il Gruppo Benetton e le comunità Mapuche argentine è la conferma di questa situazione non risolta, che sembra essere sopita ma che poi sistematicamente riesplode più forte e violenta di prima.
La proprietà attuale del Gruppo Benetton deriva da un processo classico di espropriazione di terre indigene da parte dello stato argentino a fine secolo XIX, quando l’allora presidente Uriburu, a seguito della guerra che portò lo stato argentino a conquistare il territorio Mapuche, decise di donare, in segno di riconoscenza, proprietà terriere dell’ordine di 80 mila ettari cadauna, a società inglesi in cambio dei favori ricevuti. Così che nel maggio 1889, a Londra, dieci proprietari di altrettanti possedimenti costituirono la società “The Argentinian Southern Land Company Ltd”, dotata di un patrimonio di terre che sommava a circa 800 mila ettari.
Nel 1975 la “Argentinian Southern Land Company Ltd” è acquistata da una società con sede in Lussemburgo, la “Great Western Company” , i cui proprietari sono tre famiglie latifondiste argentine: Menéndez, Hume, Paz y Ochoa. Questi, a seguito delle politiche restrittive emanate dal governo argentino all’inizio degli anni 80 del secolo scorso, e in particolare contro le società inglesi, dichiarano il loro possedimento e, nel 1992, ne cambiano la denominazione, traducendola nella lingua spagnola, e trasferendo la sede legale della società in Argentina. Arriviamo così alla attuale denominazione: “Compañia de Tierras del Sud Argentino S.A.”. L’ultimo passaggio è quello attuale, che porta all’acquisizione del Gruppo Benetton, nel 1991, quando la Compañia viene acquistata dalla Edizione Holding International N.V. di proprietà del Gruppo Benetton, costo dell’operazione 50 milioni di dollari americani.
La proprietà del Gruppo Benetton in Patagonia è oggetto da anni di manifestazioni e proteste da parte delle comunità Mapuche delle province di Neuquén, Rio Negro, Santa Cruz e Chubut, che rivendicano il loro diritto ancestrale sulle terre dove i loro avi hanno vissuto fino alla fine del secolo XIX. In questi anni la proprietà ha cercato di reagire di volta in volta mettendo in campo strategie diverse, dalla creazione di un museo storico della regione, all’offerta di compensazioni e donazioni di terreni, ma senza mai raggiungere degli accordi con le comunità Mapuche.
Uno dei conflitti più noti avvenne nel 2002, quando una famiglia Mapuche, Curiñanco/Nahuelquir, occupò le terre della località Santa Rosa, un possedimento di 535 ettari, dopo aver avuto conferma dalle autorità competenti argentine che tali terre erano catalogate come “terreni abbandonati”. La famiglia si accampò, e iniziò a coltivare e allevare qualche capo di bestiame per la propria sussistenza. Non passò molto tempo che le terre in questione furono rivendicate come appartenenti alla proprietà dei Benetton, che sporsero denuncia contro la famiglia chiedendo lo sgombero immediato, cosa che le autorità locali realizzarono, con incredibile celerità, distruggendo l’abitazione e i campi seminati. Si mobilitarono associazioni Mapuche, intellettuali, tra cui il premio Nobel Pérez Esquivel. In quella fase Benetton offrì di donare 7.500 ettari di terreno alla provincia di Chubut, per poi essere distribuite alle famiglie Mapuche della zona, ma le istituzioni argentine rifiutarono le donazioni per la pessima qualità dei terreni in questione, non adatti ad attività agricole o di allevamento. Mentre, per le comunità Mapuche, il rifiuto fu per una questione di fondo, perché per loro la questione non è risolvibile con donazioni ma con il riconoscimento dell’obbligo di restituire ciò che è stato loro espropriato con inganni, cavilli legali e falsi documenti. La causa è rimasta aperta, e la famiglia è ancora in attesa di una risposta da parte dei Benetton.
Ma negli ultimi anni la tensione e l’attenzione alle terre del Gruppo Benetton è cresciuta a causa dell’azione del movimento Resistencia Ancestral Mapuche (RAM) guidato da un giovane leader, Facundo Jones Huala.
La prima azione di questo gruppo nella proprietà Benetton risale al 2015, quando occupò un terreno dentro il settore Leleque, località La Resistencia, del Dipartimento di Cushamen, provincia di Chubut, arrivando a controllare una superficie di 1.875 ettari, organizzando postazioni per l’accesso e turni di difesa, giorno e notte. Azione, questa, che non vide l’immediata adesione dei Mapuche residenti nella comunità, essendo una toma de tierras che presuppone una forma di resistenza e di confronto violento con le autorità, nonostante sia condivisa nelle sue finalità.
Senza dubbio, quest’azione ha determinato un’accelerazione dell’azione repressiva da parte delle autorità e una maggiore attenzione da parte delle istituzioni centrali. Sarà forse una coincidenza, ma subito dopo un incontro avvenuto tra i due presidenti di Argentina e Cile, Facundo è stato arrestato, il 27 giugno scorso. Il primo agosto la Gendarmeria Nacional argentina ha represso una manifestazione indetta dallo stesso gruppo di Facundo per richiedere la sua liberazione: con un dispiegamento di oltre 100 agenti anti sommossa, arresti, uso di proiettili di gomma e la scomparsa di una persona, Santiago Maldonado, a conferma della mano dura che le istituzioni argentine intendono usare per fermare la protesta e le azioni di occupazione di terre.
Una strategia repressiva che ha subito riaperto una vecchia ferita non ancora chiusa nella società argentina e cilena: la questione dei desaparecidos, che ha visto oltre 30 mila argentini sparire durante le dittature militari dal 1976 al 1983. La scomparsa di Santiago Maldonado, uno dei giovani argentini messosi al fianco delle comunità Mapuche, malmenato e poi prelevato dagli agenti, secondo testimonianze di diverse persone presenti, è un caso che trascende la protesta Mapuche e colpisce la parte più sensibile della società argentina, il ricordo terribile dell’epoca della dittatura militare.
Le istituzioni locali e federali, non appena hanno visto crescere la protesta nella capitale, con in testa le associazioni per i diritti umani, las madres e las abuelas de Plaza de Mayo, i sindacati, accademici e intellettuali, a chiedere che si faccia immediatamente luce su quanto accaduto, che si individuino responsabilità e il domicilio attuale di Santiago Maldonado, hanno aperto un’inchiesta, ma ancora oggi, a distanza di 40 giorni, non vi sono novità sul caso, se non tentativi di depistaggio e di squalificare la figura e l’azione di Santiago e degli altri giovani coinvolti nelle proteste.
Nel frattempo la mobilitazione a favore di Maldonado è diventata globale, da Amnesty International, ai sindacati, alle associazioni di difesa dei diritti umani, alle università, in ogni angolo del mondo appare il volto del giovane argentino con la domanda: “Dov'è Santiago Maldonado?”.
Diritti dei popoli indigeni e desaparecidos, due questioni che si intrecciano e che vedono ancora una volta riapparire spettri del passato che possono essere sconfitti solamente con la democrazia e con il rispetto dei diritti umani, con il coraggio e la responsabilità di affrontare la storia non solamente con la voce dei vincitori ma anche ascoltando la voce dei vinti, ricostruendo giustizia e riconciliazione, restituendo alle popolazioni indigene condizioni minime che consentano di poter vivere in modo dignitoso e nel rispetto delle loro culture, dando così concretezza a società multietniche e interculturali.
Per ora la priorità è quella di trovare Santiago Maldonado. L’auspicio è che il buon esempio potrebbe partire proprio da casa nostra, se il Gruppo Benetton sedesse al tavolo con le comunità Mapuche e trovasse un accordo storico, mettendo fine a un conflitto permanente.
Sergio Bassoli, Area politiche internazionali ed europee Cgil