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Quattrocentosessanta metalmeccanici, all’Enel di Civitavecchia, lavorano in circa 20 aziende del “sistema” degli appalti per una centrale che nel 2025 dovrà uscire dal carbone e convertirsi al gas. Non sanno quale sarà il loro futuro tra pochi anni, dopo la conversione energetica. Il loro presente, invece, sono ferie forzate e cassa integrazione, lunghi periodi di pausa alternati a settimane di superlavoro, con picchi di 79 ore, ossia 16 ore al giorno, perché “Enel ti fa lavorare così”. La loro situazione, “drammatica”, l’ha raccontata oggi, 13 febbraio, Silvio Scalamandrè, Rsu Fiom della Centrale di Civitavecchia, nel corso di un’assemblea sul sempre più feroce mondo del lavoro in appalto organizzata a Roma da Slc Cgil e Fiom Cgil di Roma e Lazio. Un appuntamento nel quale le due categorie hanno dialogato e avviato un percorso di azione condivisa, mettendo in comune storie di quotidiana regressione della qualità del lavoro, dei diritti, della legalità. Mettendo fianco a fianco delegati abituati già, e spesso, a lavorare assieme nei siti produttivi. Storie di appalti e subappalti, appunto, che riguardano ormai tutti i settori del mondo del lavoro, dai cantieri alle telecomunicazioni, dai call center, all’informatica, ai servizi.
Storie come quella di Italpost, un’azienda privata di servizi postali che ha perso da un giorno all’altro la commessa di consegna multe appaltata dal Comune di Roma, e il danno è ricaduto tutto sulle spalle dei suoi lavoratori, ha spiegato il delegato Slc Roberto Bruno. Storie come quella del call center Covisian, ora “traslocato” in Comdata: l’ha raccontata Valerio Antoniucci, Rsu Cgil “ufficialmente” fino a novembre 2019, ma continua a esercitare la sua funzione sindacale e “colleghi e compagni - spiega - mi danno retta”. In questo caso, nel cambio di appalto, la clausola sociale - ossia quella norma che dovrebbe garantire il riassorbimento occupazionale del personale dall’impresa uscente a quella subentrante - non “è bastata a tutelare i lavoratori”, racconta Antoniucci: “Molti di loro non sono rientrati nel perimetro occupazionale, hanno rischiato il licenziamento. Altri hanno rinunciato al posto e adesso vivono di Naspi (l’indennità di disoccupazione), perché per età anagrafica e situazione familiare non erano in grado di affrontare uno spostamento quotidiano di 35-40 chilometri verso la nuova sede di lavoro”. Magari per lavorare 20 ore a settimana, dovendosi pagare la benzina e sacrificando tempo di vita.
Anche l’informatica, come ha raccontato Marta Minielli, Rsu Fiom di Capgemini, vive in pieno l’emergenza: orari di lavoro dilatati, outsourcing all’estero, “contratti assurdi”. La parola chiave è “frammentazione”: dei livelli contrattuali e dei diritti. Sebbene in un settore ad alto valore tecnologico, “la qualità del prodotto non importa, anzi peggiora. Basta che il costo del lavoro sia basso”. E quindi si appalta la produzione ad aziende esterne senza curarsi delle condizioni occupazionali di chi ci lavora. E cosa dire di Tim? 45 mila dipendenti in tutta Italia, eppure il costo del lavoro incide solo per 2,5 miliardi sul suo fatturato, mentre il 60% se lo prende la voce “acquisto di beni e servizi” (8,5 miliardi), ossia un modello produttivo imperniato su di una giungla di appalti e fornitori esterni. Mentre i lavoratori Tim - in questa partecipatissima assemblea romana rappresentati da Fabio Di Russo, Rsu Slc Cgil - chiedono una politica industriale e serietà a un’azienda chiamata alla sfida dell’innovazione digitale. Infine c’è il caso Sirti: azienda in appalto di installazioni telefoniche, e in piena vertenza. Riepiloga Mauro Vagnozzi (Rsu Fiom): “Abbiamo da poco scongiurato 833 licenziamenti, ma la situazione è tornata delicatissima. Sirti subappalta a sua volta in una competizione sfrenata sui prezzi dove chi subentra assume a condizioni sempre peggiori. È da 20 anni che va avanti questa storia - ricorda Vagnozzi - e, da 13 mila dipendenti, Sirti è scesa a 4 mila”.
È spettato a Carlo Podda, segretario generale della Slc Roma e Lazio, ricordare che quella delle esternalizzazioni è una storia lunga, iniziata alla fine degli anni ‘70 e, nella pubblica amministrazione, al termine degli anni ‘90. Si è ormai affermata come “pratica prevalente” l’aggiudicazione di servizi (ossia di lavoro) “al massimo ribasso”. “Il sistema pubblico non considera il lavoro un fattore decisivo, ma un mero costo” e - causa la mancata vigilanza della Consip - ha preso sempre più piede la pratica dei contratti pirata. “Una follia cui dobbiamo porre fine”, ha detto Podda, suggerendo che il sindacato chieda al governo nazionale, e ai governi regionali, la sottoscrizione di un Patto sugli appalti. “Nel settore metalmeccanico - ha detto invece Fabrizio Potetti, segretario generale Fiom Roma e Lazio - i lavoratori in appalto sono ormai la maggioranza”. Tutti gli argini che si sono posti (Codice degli appalti, clausola sociale) “hanno delle falle” e possono essere “aggirati nelle gare di appalto”. Potetti ha ricordato che le Regioni Piemonte e Toscana hanno raggiunto “ottime intese” sulla clausola sociale, e ha invitato la Regione Lazio a fare altrettanto, “mantenendo le promesse fatte”. Mentre il segretario generale di Cgil Roma e Lazio, Michele Azzola, l’ha sintetizzata così: “È in corso da decenni una guerra dei ricchi contro i poveri. Attraverso la leva degli appalti, in Italia, è stata fatta la peggiore riduzione dei diritti dei lavoratori nella storia recente”. E l’aspetto perverso del meccanismo - prosegue Azzola - è che “le imprese cattive”, quelle che pagano poco e non tutelano i lavoratori, che licenziano e sfruttano, “cacciano le imprese buone”, in una “situazione lacerata” che la Cgil nel suo complesso è chiamata a sanare, con l’obiettivo di “riconquistare il diritto al lavoro dignitoso” per tutti.
Una discussione drammatica, insomma, seppure consapevole e progettuale, quella avvenuta oggi, che secondo Fabrizio Solari (segretario generale Slc Cgil) “è lo specchio di un modello produttivo” scelto dalle imprese italiane, da sempre “poco illuminate”. Un modello che in alcuni casi di appalto (vedi l’80% dei call center esternalizzati) è “mera intermediazione di manodopera”. Qualcosa che un tempo, in Italia, era vietato per legge. Un modello che per Solari si può “distruggere” (o almeno provarci) in modi diversi: “Agendo sul versante della committenza, oppure tramite la legge”. Ma per il segretario Slc l’azione più importante è quella “contrattuale”, insieme all’ottenimento di una legge sulla rappresentanza: “Contratta e ha diritto di applicare quel contratto chi, dai due lati del tavolo, è maggiormente rappresentativo”.
Francesca Re David, segretario generale Fiom Cgil, ha invece sottolineato che “gli appalti non sono un settore, ma una modalità organizzativa”, e che ormai riguardano tutta l’industria metalmeccanica, non solo il comparto dei servizi. Anche grandi gruppi come Leonardo e Fincantieri “vivono di appalti”, ha ricordato Re David. Mentre la maggior parte delle multinazionali che fanno impresa in Italia accettano solo “lavoratori somministrati, così possono imputarli come acquisti di beni e servizi e non come costo del lavoro”. Per la segretaria Fiom sono “saltati i diritti minimi”, ma per difenderli e recuperarli il sindacato deve continuare ad “agire sul terreno della legge e dei contratti”, e deve “mettere insieme i lavoratori di più categorie”, come accaduto in questa assemblea, perché i “coordinamenti dei delegati e la rappresentanza di sito sono decisivi”.
Concludendo l’incontro, Maurizio Landini ha chiarito che il sindacato sta ponendo le basi: “È un inizio di discussione”. Il segretario generale della Cgil ha ipotizzato l’utilità e la necessità di un “coordinamento” tra categorie della confederazione che “apra vertenze” con le imprese e con le istituzioni. Ma ha chiarito che la “battaglia” sugli appalti si può combattere solo se si capisce che “riguarda tutti i lavoratori”, anche quelli che “lavorano in aziende che, a loro volta, si avvalgono di appalti”. È una battaglia sulla quale si misura uno dei mandati dell’ultimo congresso Cgil, quello a realizzare una contrattazione inclusiva - ha incalzato Landini - ossia il compito di “qualificare la contrattazione”, che oggi non include troppi lavoratori indifesi. Probabilmente - ragiona Landini - “non è sufficiente il coordinamento tra categorie e confederazione”, ma bisogna trovare una nuova “forma di organizzazione e di rappresentanza dei vari soggetti che vogliamo tutelare”. Il segretario Cgil ha fatto l’esempio delle grandi lotte contrattuali dell’Autunno caldo, la stagione del ‘69 operaio: allora si consumò “il passaggio dalle commissioni interne ai consigli di fabbrica”, e nacque “una rappresentanza eletta direttamente dai singoli lavoratori, e che rispondeva non alle organizzazioni ma ai lavoratori stessi”.
“Se ragioniamo di appalti - ha chiarito Landini - dobbiamo dare un luogo di rappresentanza comune a tutti i lavoratori”. È insomma un appello a “sperimentare” e a perseguire uno degli obiettivi principali dell’azione sindacale, quello di “ricostruire legami di solidarietà”. “Ma la solidarietà tra uguali è facile, mentre quella vera avviene quando chi sta meglio aiuta chi sta peggio”. A questo, ha aggiunto il leader della Cgil, si dovrà accompagnare “l’azione contrattuale”, la costruzione di “una nuova titolarità contrattuale” riconosciuta dalle imprese. Ma occorre anche cambiare le leggi. Portare avanti la battaglia per l’abolizione del Jobs Act e per una legge sulla rappresentanza. Perché senza una legge che consenta l’attività sindacale nel “nuovo” mondo dell’economia e del lavoro - conclude Landini - “una battaglia rischiamo di non poterla fare”. “Costruire una cultura politica che rimetta al centro la qualità del lavoro”: è la nuova trincea del sindacato. Per salvare tutte quelle lavoratrici e quei lavoratori abbandonati nella terra di nessuno degli esclusi, e che stanno diventando, gradualmente, ingiustamente, la maggioranza. Un esito che nessun sindacato e nessun Paese civile può permettere né tollerare.
La fotogallery, S. Caleo
Appalti senza diritti, la Fiom dice basta, S. Ciaramitaro