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Tratto dal numero 5/2018 di Specchio Internazionale. Articolo originale pubblicato su “Social Europe”
Le scommesse rischiose fatte dal governo argentino a partire dal dicembre 2015, da quando cioè il presidente Mauricio Macri è in carica, hanno aumentato la vulnerabilità del Paese. Tra le sue prime misure, la rimozione dei controlli sul tasso di cambio e sui capitali e la riduzione delle tasse sulle esportazioni di materie prime. Non solo. Il governo Macri ha anche intrapreso un nuovo approccio macroeconomico basato su due pilastri: una graduale riduzione del disavanzo primario e un ambizioso regime di controllo dell’inflazione, che in soli tre anni avrebbe dovuto abbassare a una cifra il tasso di crescita annuale dei prezzi.
I mercati avevano festeggiato. L’idea era che il Paese avesse fatto tutto il necessario per ottenere una crescita economica sostenibile in modo più rapido. Presumibilmente, gli investimenti esteri diretti sarebbero cresciuti. Ma non è andata così. L’Argentina ha subìto nel 2016 una stagflazione. Seguita da una ripresa basata sull’incremento del debito nel 2017. Ciò ha portato a un’ondata di importazioni che non è stata accompagnata da una proporzionale crescita delle esportazioni, allargando il deficit della bilancia dei pagamenti al 4,6% del Pil e facendo nascere dubbi sulle virtù del nuovo approccio.
Poi, nei mesi scorsi, i mercati hanno smesso di festeggiare, le aspettative si sono inasprite e il capitale è fuggito. La valuta nazionale, il peso, si è svalutata del 19% rispetto al dollaro Usa in sole tre settimane a maggio. Al contrario delle speranze di Macri, le sue riforme hanno attratto soprattutto capitali a breve termine e finanziamenti nella forma di obbligazioni, sia in moneta straniera che nazionale, piuttosto che investimenti stranieri diretti.
In questa vicenda, la Banca centrale argentina ha una significativa parte di responsabilità; mentre l’approccio adottato si è rivelato largamente inefficace nel ridurre il livello dei prezzi al consumo e, allo stesso tempo, gli alti tassi di interesse hanno attirato nuovo flussi di capitale speculativo, che hanno peggiorato gli squilibri e aumentato la vulnerabilità dell’Argentina agli shock esterni.
Come parte dell’approccio all’inflation-targeting, la Banca centrale ha sterilizzato una grande quota degli aumenti della base monetaria attraverso la vendita di bond delle Banche centrali (Lebacs). Ciò significa che il settore pubblico ha effettivamente finanziato attraverso l’emissione di debito a breve della Banca centrale la parte più importante del considerevole deficit primario (4,2% e 3,83% nel 2016 e nel 2017). L’emissione di Lebacs è stata enorme, crescendo del 245% dal dicembre 2015.
La crisi valutaria ha alla fine rivelato le vulnerabilità dell'Argentina. In prospettiva, il Paese sarà esposto a differenti rischi. Tra questi la possibilità di continuare ad avere un’alta volatilità sui mercati, che però attirerebbe ancora investimenti speculativi. Ma non solo. Poiché il debito pubblico in valuta estera è più elevato rispetto a due anni fa, l'aumento del rischio di cambio potrebbe rimettere in discussione anche la sua sostenibilità.
Valutare dove sta andando l’Argentina dopo la crisi richiede di evidenziare diversi elementi salienti di come tutta la vicenda è stata gestita. Primo, la Banca centrale ha perso il 10% delle sue riserve monetarie estere in un solo mese. Secondo, il tasso nominale annuale dell’interesse sui Lebacs è cresciuto dal 40%, il più alto al mondo, a rischio di creare un’impennata del debito della Banca centrale. Terzo e più scioccante per gli argentini, Macri ha annunciato che il Paese cercherà uno stand-by agreement con il Fondo monetario internazionale.
Perciò se il settore pubblico cadrà in uno stato di difficoltà debitoria nei prossimi anni, dovrà sottoporsi al tutoraggio del Fmi – esso stesso un creditore, ma anche un’istituzione che è dominata dai creditori internazionali. A quel punto, le condizioni che il Fmi impone normalmente in cambio dei finanziamenti potrebbero causare un danno grave.
Ma la cosa in assoluto più preoccupante è che è stato riaffermato l’approccio inflation-targeting, che ha esacerbato gli squilibri esterni argentini. Non dovrebbe pertanto sorprendere se un nuovo ciclo di rivalutazione del tasso reale di cambio ricomincerà nel 2019. Con le elezioni presidenziali l’anno prossimo, sarebbe una buona notizia per Macri. Ma non fa ben sperare per il futuro dell’Argentina.
Alla fine, poiché l’approccio di Macri per mettere l’economia argentina su un percorso di sostenibilità finora è fallito e ha aumentato la dipendenza del Paese dai creditori internazionali, il suo governo ha ancora di fronte la sfida di evitare una crisi del debito. Per proteggere l’attività economica e riparare le vulnerabilità, dovrebbe essere mantenuta la strategia di una graduale riduzione del deficit fiscale primario. Ma per salvare l’Argentina da una crescita degli squilibri esterni che colpiscono la sostenibilità del debito pubblico esterno, la politica monetaria deve cambiare.
Ciò significa riconoscere finalmente che il tentativo di ridurre l’inflazione a un passo molto più rapido del deficit fiscale comporta rischi costosi. Il percorso prudente richiede anche una riduzione graduale dello stock di Lebacs, riconoscendo che una maggiore pressione inflattiva nel breve termine è il prezzo per minimizzare, lungo la strada, il rischio di più alti squilibri esterni e di più grandi svalutazioni del tasso di cambio.
L’Argentina sembra annodarsi su se stessa. Come uscirne resta un rebus.
Joseph Stiglitz è professore alla Columbia University di New York, nel 2001 Premio Nobel per l’economia; Martin Guzman è ricercatore associato alla Columbia University di New York
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