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Pubblichiamo l’introduzione di Giuseppe Pesce al suo libro, «Alfasud, una storia italiana», Ediesse 2014.
Ci sono tante storie, dentro la storia dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco. All’inizio c’è il sogno di un meridionale, Nicola Romeo, un ingegnere della provincia di Napoli che cambiò le sorti di un’azienda lombarda in crisi, trasformandola in una delle prime realtà industriali del paese.
Ma i sogni, si sa, sono brevi e durano poco. E così questa storia divenne ben presto quella dell’intervento pubblico in Italia: dall’IRI degli anni del fascismo fino alla fine delle partecipazioni statali; e poi alla grande stagione delle privatizzazioni, di cui la vendita dell’Alfa fu antesignana nel 1986.
Che poi, a ben guardare, a queste latitudini è anche la storia degli sforzi (e dei tanti errori) dello Stato per l’industrializzazione del Mezzogiorno, di cui l’Alfasud rappresenta l’ultimo grande episodio.
Un secolo di industria e di politica, insomma. Di tayloristi e di fordisti, da Ugo Gobbato a Giuseppe Luraghi. Di fascisti, democristiani e comunisti: da Mussolini ad Aldo Moro, da Berlinguer a Romano Prodi. Ma anche un secolo di società italiana. Perché dentro la storia di Pomigliano c’è anche la storia del conflitto operaio: di una protesta che si leva prim’ancora del Sessantotto, nel pieno del boom economico; che attraversa gli anni di piombo e giunge fino al liberismo all’italiana e alla globalizzazione. Fino all’ultima grande crisi.
Dell’Alfa di Pomigliano esistono diversi racconti, che ne sono altrettante «letture»: di storici, di economisti, di sociologi, di giornalisti. Gli architetti, ad esempio, hanno riscoperto le tracce urbanistiche della «Città-Alfa Romeo» del periodo fascista. Nicola Crepax, invece, ha scovato inediti documenti di Luraghi negli archivi dell’IRI. Nel 1980 un sociologo studiò la fabbrica come «caso anomalo» di conflittualità tra lavoratori, sindacato e padroni. Vent’anni dopo, un altro provò a ricostruire il singolare fenomeno dei gruppi musicali operai, dei «Zezi» e delle «Nacchere rosse».
La FIOM ha poi creato un archivio storico del sindacato di Pomigliano, raccogliendo molti documenti della vita di fabbrica, soprattutto (ma non solo) degli anni Settanta, della grande stagione dei movimenti. E poi ci sono le cronache giornalistiche: dai rari cinegiornali Luce ai tanti articoli della stampa quotidiana – con camei di grandi firme come Walter Tobagi e Giorgio Bocca – agli interventi di economisti, industriali, politici.
Ognuno di questi racconti è parziale: e non perché non possegga una propria coerenza, ma soprattutto perché non riesce a dialogare con gli altri. Il racconto della Pomigliano operaia, ad esempio – che è forse il più bello e il più vivo – comincia col nuovo stabilimento, negli anni Settanta; ma non ha memoria del dibattito che precedette l’Alfasud, delle scelte di Luraghi che risalgono a metà degli anni Cinquanta, del lungo scontro che si consumò con la FIAT.
Così come la FIAT, tentando da anni di abbandonare l’Alfa Romeo ai marosi dell’economia di mercato, pare dimenticare che il mercato c’entra poco nella storia di una società salvata dall’IRI nel 1933; e soprattutto in quella di uno stabilimento, Pomigliano, creato dallo Stato nel 1967.
Non è una storia da museo industriale, insomma, quella che cominciamo a ricostruire. E forse, se manca ancora un racconto complessivo di Pomigliano, in grado di restituire un quadro organico di una grande storia italiana, un motivo c’è. E cioè che Pomigliano, con le sue tante e diverse storie, è una sorta di «ingorgo» della storia; ma soprattutto, perché il «problema storico» intorno al quale cominciamo a costruire un racconto, riguarda il futuro (di questo stabilimento, come dell’industria meridionale) molto più del passato.