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Contrattazione e rappresentanza collettiva non sono solo diritti fondamentali dei lavoratori, ma sono anche uno strumento essenziale per migliorare le performance del mercato del lavoro e ridurre le disuguaglianze, tanto più in uno scenario come quello attuale, caratterizzato da rapidissimi e profondi mutamenti di carattere tecnologico, sociale e ambientale. A dirlo stavolta non è un sindacato, ma uno dei più importanti organismi internazionali, l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che ha recentemente pubblicato un articolato rapporto dal titolo “Negotiating Our Way Up: collective bargaining in a changing world of work” (scarica il rapporto in inglese), in cui si legge che “la contrattazione collettiva è essenziale per aiutare i lavoratori e le aziende ad adattarsi ai cambiamenti e ad assicurare un mondo del lavoro più inclusivo e prospero”. Purtroppo, però, è la stessa Ocse a lanciare un allarme: negli ultimi decenni i livelli di sindacalizzazione e di conseguenza quelli di contrattazione collettiva si sono ridotti in maniera sensibile nel mondo e questo rischia di avere conseguenze nefaste, come l'indebolimento delle relazioni sindacali in molti Paesi e l'aumento di nuove e troppo spesso precarie forme di lavoro. Abbiamo chiesto a Stefano Scarpetta, direttore per l'impiego, il lavoro e gli affari sociali presso l'Ocse, di spiegarci il senso e i contenuti di questo importante lavoro.
Rassegna Dottor Scarpetta, perché avete sentito il bisogno di stilare questo rapporto?
Scarpetta È la sintesi di tre anni di lavoro sul tema della contrattazione collettiva, che consideriamo un istituto fondamentale. Nel 2018 abbiamo presentato la nuova strategia per l'occupazione dell'Ocse (Jobs strategy), dopo quelle del 1994 e del 2006, una revisione profonda, anche alla luce dei grandi mutamenti dell'ultimo decennio, dalla crisi economica e finanziaria alla rivoluzione tecnologica e digitale. In quella strategia, la contrattazione collettiva ha un'importanza fondamentale, per questo abbiamo ritenuto necessario avere una visione aggiornata e il più dettagliata possibile. Inoltre, negli ultimi anni, ci sono state una serie di riforme importanti dei sistemi di contrattazione collettiva - pensiamo alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e, più recentemente, alla Francia -, mentre in altri Paesi è tutt'ora aperto un dibattito su possibili riforme, penso alla Germania, alla Nuova Zelanda e ad alcune proposte che candidati democratici stanno avanzando anche negli Stati Uniti. Questo ha reso ulteriormente necessario avere un quadro d'insieme.
Rassegna Un quadro che però, a leggere il rapporto, descrive un arretramento della contrattazione negli ultimi decenni. Questo vi preoccupa?
Scarpetta Indubbiamente. In primo luogo da circa tre decenni è in atto, un po' dappertutto (con poche eccezioni e due soli Paesi in controtendenza, Islanda e Belgio, ndr), un calo dei livelli di sindacalizzazione dei lavoratori: nei paesi Ocse si è passati da una media del 33% nel 1975 ad una del 16% nel 2018 (anche in Italia c'è stato un calo, sebbene il tasso di sindacalizzazione resti molto più alto, sopra al 40%, ndr). Di pari passo, ma meno intensamente, è calato anche il numero di lavoratori coperti da contratti collettivi, passando dal 45% del 1985 al 32% attuale. Questo trend ci preoccupa molto, in special modo se guardiamo all'evoluzione in atto nel mercato del lavoro: rivoluzione digitale, invecchiamento della popolazione, catene del valore ecc. Questi mega-trend stanno creando da una parte nuove opportunità, ma dall'altra anche posti di lavoro precari, insicuri e deboli. Quindi, ci sarebbe ancora più bisogno di sindacalizzazione e contrattazione collettiva, proprio per aiutare, in modo particolare, quei lavoratori più fragili e vulnerabili.
Rassegna In Italia si è molto dibattuto sull’opportunità di garantire un salario minimo per legge o di farlo piuttosto attraverso l’estensione erga omnes dei contratti collettivi. Cosa suggerisce l’Ocse a riguardo?
Scarpetta Tra i paesi Ocse, sono 28 quelli che hanno un salario minimo statutario, cioè stabilito per legge. Le modalità di definizione e di adattamento nel tempo sono diverse da paese a paese. Quelli in cui funziona meglio, a nostro avviso, sono i paesi in cui c'è una commissione indipendente – e io ho fatto parte di quella francese - che valuta il livello del salario minimo e suggerisce aggiustamenti eventualmente necessari al di là delle formule di adeguamento all’inflazione. Questo strumento diventa importante laddove c'è un numero crescente di lavoratori che non beneficiano più, nella stessa misura rispetto al passato, degli accordi collettivi. La Germania è un esempio pertinente: non aveva un salario minimo proprio perché i minimi tabellari settoriali offrivano una copertura di fatto alla gran parte dei lavoratori; ma il tasso di copertura degli accordi collettivi è diminuito molto nel Paese, soprattutto nel settore dei servizi, e così sono nati i cosiddetti mini jobs, piccoli lavori pecari e remunerati a livelli molto bassi. Per questo la Germania nel 2015 ha ritenuto importante introdurre un minimo federale di 8,5 euro l'ora (poi salito a 9,20). I Paesi nordici dell'Europa, invece, avendo sistemi di contrattazione collettiva molto sviluppati, con un grosso numero di lavoratori che ne beneficiano, non hanno salari minimi statutari, perché i minimi tabellari garantiscono una soglia di remunerazione. In Italia, anche se in teoria la gran parte dei lavoratori sono coperti dalla contrattazione collettiva, i dati sulle remunerazioni ci dicono che molti di loro hanno livelli inferiori ai minimi tabellari. Per questo credo che sia venuto il momento, anche nel nostro paese, di considerare l'ipotesi di un salario minimo statutario.
Rassegna E cosa pensa invece dell'altra strada, proposta ad esempio dalle organizzazione sindacali, cioè quella dell'estensione a tutti i lavoratori dei minimi già previsti dai contratti nazionali?
Scarpetta Questo è un altro dei punti che affrontiamo nel rapporto. È chiaro che ci possono essere diverse opzioni nei vari paesi, l'importante è però che le griglie contrattuali siano adeguate a tutte le tipologie di imprese presenti nel settore. Le faccio un esempio: nel caso francese era prevista un'estensione automatica degli accordi collettivi a tutti, ma questo disincentivava un dialogo a livello di impresa e anche la stessa contrattazione collettiva ne risentiva, creando soprattutto uno svantaggio per le piccole e medie imprese che hanno difficoltà ad offrire certi livelli di remunerazione. La riforma varata due anni fa ha aggiustato il tiro su questo, prevedendo che gli accordi settoriali tengano conto anche dell'impatto che possono avere sulle piccole e medie imprese. Quindi, il ministro del lavoro decide, anche in base a questa valutazione, se estendere gli accordi. Insomma, anche l'ipotesi dell'estensione dei contratti può funzionare, dipende molto da come viene realizzata.
Rassegna Nel rapporto insistete parecchio sulla necessità di bilanciare flessibilità e inclusione nella contrattazione collettiva. Cosa significa? Non pensate che il mondo del lavoro attuale soffra in realtà di un eccesso di flessibilità, che spesso diventa precarietà?
Scarpetta È un punto molto importante e mi fa piacere chiarirlo. Il termine flessibilità va letto come capacità di un sistema economico e di un mercato del lavoro di adeguarsi ai cambiamenti. In effetti purtroppo in Italia, ma anche in altri Paesi europei, la flessibilità è stata invece tradotta con maggiore precarietà. Sono nate nuove tipologie di lavoro, ma più instabili e penalizzanti per i lavoratori. Al contrario, il punto fondamentale è che stiamo vivendo profonde trasformazioni che offrono enormi possibilità, ma c'è bisogno di assicurare dei livelli di protezione adeguati. Per farlo, i dati in nostro possesso ci dicono che il sistema più efficace è quello che vede una contrattazione settoriale che fissa le basi, lasciando poi un margine di negoziazione complementare a livello di impresa, laddove però ci sia una rappresentanza sindacale adeguata. Dove questa manca, invece - e penso alle tante nuove figure spurie e atipiche come quelle dei lavoratori delle piattaforme digitali - si pone con forza il tema dell'inclusione, che deve a mio avviso partire da due elementi fondamentali: chiarezza sulla tipologia di rapporto contrattuale e introduzione di protezioni sociali.
Rassegna Cosa intende quando dice chiarezza sulla tipologia di rapporto contrattuale?
Scarpetta Intendo affrontare il problema dei falsi self-employed (le finte partite iva, ndr), ovvero di quei lavoratori considerati impropriamente autonomi, perché magari non hanno un orario fisso o una sede di lavoro standard, ma che comunque dipendono a tutti gli effetti da una sola impresa. È il caso di molti lavoratori impiegati oggi dalle piattaforme digitali, che hanno un'evidente dipendenza economica da quel singolo soggetto imprenditoriale, ma che non sono considerati lavoratori dipendenti, venendo di fatto esclusi da tutte quelle protezioni sociali che, in Italia come in quasi tutti i paesi Europei e dell’Ocse, sono riservate a chi ha un contratto nazionale o settoriale di lavoro dipendente. Fare chiarezza e ordine su questo è il primo passaggio, dopodiché, per quel gruppo di lavoratori che noi definiamo nella “zona grigia”, laddove cioè non è effettivamente chiaro il rapporto di dipendenza, va comunque previsto un pacchetto di protezioni sociali minime che dovrebbero essere garantite a chiunque, a prescindere dalla tipologia di rapporto contrattuale.
Rassegna Ci sono esempi di buone pratiche da questo punto di vista nei paesi Ocse?
Scarpetta Gliene faccio due. Il primo è il Canada, dove la riforma del codice del lavoro nel 2018 ha trasferito la responsabilità di dimostrare la mancanza di vincolo di dipendenza in un contratto di lavoro dal lavoratore al datore di lavoro. Quindi, se un lavoratore contesta il tipo di contratto che ha con il suo datore, perché sostiene che è un rapporto di natura dipendente non riconosciuto, spetterà al datore di lavoro dimostrare il contrario, pena la trasformazione del rapporto in lavoro dipendente. L'altro esempio è quello della Francia, dove è stata fatta una riforma, a mio avviso epocale, sulla formazione professionale. Rendendosi conto che molti lavoratori, con contratti più precari, rapporti atipici e basse qualifiche, ricevono molta meno formazione professionale, in un paese in cui si spende una montagna di soldi per questo strumento, il governo francese ha deciso di creare un sistema nuovo, sostanzialmente basato sul diritto individuale alla formazione, da esercitare attraverso il “Conto personale per la formazione”, ovvero un budget di risorse da investire in formazione individuale che non è più gestito dalle imprese, ma direttamente dai singoli lavoratori, dipendenti e autonomi, a prescindere dalla tipologia del loro rapporto contrattuale.
Rassegna Dal report che avete pubblicato emerge con chiarezza la grande eterogeneità dei sistemi di contrattazione collettiva esistenti. Ritenete che un'uniformazione sia necessaria per evitare quei fenomeni di dumping e delocalizzazione che sono oggi così frequenti e che danneggiano fortemente i lavoratori?
Scarpetta Questo è senza dubbio un tema cruciale. Nel rapporto evidenziamo, come lei diceva, che i sistemi di contrattazione collettiva, anche soltanto in Europa, sono molto diversi da un paese all'altro e in qualche modo rispecchiano anche le tradizioni, la cultura e la storia di ogni singolo Stato. Per cui, ad esempio, immaginare che il modello svedese, con i suoi job security councils, all'interno dei quali sono le parti sociali a gestire vertenze e transizioni, possa essere adattato ai paesi dell'Europa meridionale è molto difficile. Così come difficile sarebbe estendere il modello tedesco, dove nel settore manifatturiero esistono i works councils e i lavoratori fanno parte dei consigli di amministrazione, cosa che non accade negli altri paesi. Ma se pensare ad un modello unico è difficile, è invece auspicabile avere un coordinamento, una coerenza, alcuni elementi di base comuni, che si applichino alle grandi piattaforme e alle multinazionali, impedendogli di fare arbitraggio da un paese all'altro sulla pelle dei lavoratori. Ecco, questo è qualcosa su cui Commissione europea e singoli Stati dovrebbero lavorare da subito.