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Le speranze di un successo per la X Conferenza ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, nell’anno del suo ventesimo compleanno del Wto, erano soprattutto legate ai recenti risultati di un altro negoziato multilaterale. Si veniva dal non facile accordo raggiunto a Parigi sulle questioni climatiche e si era scelto, non a caso e per la prima volta, uno Stato africano, il Kenya, per ospitare i lavori di rilancio dell’Agenda di Doha, promossa nel novembre del 2001, subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle, come risposta al terrorismo mondiale e promessa di mettere le politiche commerciali al servizio dello sviluppo, a partire da quello dei paesi più poveri.
Eppure nonostante le premesse, dopo quattro giorni di incontri fittissimi e un prolungamento del negoziato di oltre 24 ore, le distanze tra Nord e Sud del mondo restano tutte, con i nodi da sciogliere sempre uguali: da una parte Unione Europea e Stati Uniti sono per maggiori aperture e l’introduzione di nuove tematiche come investimenti, appalti pubblici e servizi, dall’altra i Paesi in via di sviluppo e quelli più poveri a fare blocco contro liberalizzazioni che rischierebbero di mettere in ginocchio le loro economie.
Il documento finale della Conferenza di Nairobi - una dichiarazione ministeriale che la Commissario europea Cecilia Malmstrom saluta su Twitter come il risultato di un lavoro faticoso – è un testo fumoso e abbastanza privo di speranze: zeppo di riconoscimenti della crisi che permane, dell’importanza del tavolo multilaterale per risollevarsi insieme. Ma la sostanza non c’è. Innanzitutto non c’è un impegno a continuare sull’Agenda di Doha in quanto tale: i suoi temi più sensibili sono stati assegnati a ulteriori negoziati che partiranno dalle decisioni ministeriali, finalizzate il 19 dicembre, oltre i tempi previsti inizialmente per la ministeriale (al punto che le Ong erano già state sfrattate, da molte ore, dal centro congressi).
Si tratta dei meccanismi speciali di salvaguardia per i paesi in via di sviluppo; dello stoccaggio pubblico di derrate alimentari per la sicurezza alimentare; dei sussidi all’export e al cotone; delle regole preferenziali di origine per i paesi meno sviluppati. Temi “storici” dell’Agenda di Doha, su alcuni dei quali – come lo stoccaggio alimentare per garantire la sopravvivenza alle popolazioni più povere – era stato raggiunto un difficile compromesso due anni fa a Bali.
Le decisioni ministeriali fanno la fotografia dello stadio di consenso raggiunto e rimandano l’ulteriore lavorazione degli accordi finali al negoziato tecnico che continuerà nelle paludate sedi di Ginevra. A questa condizione i Paesi emergenti hanno accettato che l’appuntamento di Nairobi non finisse in un fallimento completo, senza alcun accordo finale, ma è chiaro che tutta la retorica che ha sempre circondato il cosiddetto Round dello sviluppo lanciato a Doha nel 2001 si mostra al mondo per quello che era, chiarendo senza ombra di dubbio l’assoluta mancanza di impegno dei paesi più forti, a partire dagli Usa e dalla stessa Unione Europea.
D’altra parte era stato lo stesso negoziatore americano, Michael Froman, in apertura dei lavori, a sentenziare che, “bisogna essere onesti: il Doha round è a fine corsa”. “Ci incontriamo un’altra volta a parlare di Doha Round che, a fronte di tutte le speranze iniziali che ha rappresentato, semplicemente non ha dato frutti. Se l’obiettivo del commercio globale è guidare lo sviluppo e la prosperità in questo secolo come ha fatto negli ultimi, abbiamo bisogno di scrivere un nuovo capitolo per l’Organizzazione mondiale del commercio che rifletta le realtà economiche di oggi. È tempo per il mondo di liberarsi delle restrizioni di Doha”. Si dice, infatti, nella dichiarazione ministeriale approvata a Nairobi, che molti membri della Wto riconoscono la validità dell’Agenda di Doha, altri no. E che dunque, su temi importanti come i tre pilastri dell’agricoltura cruciali per la vita dei paesi più poveri (sostegno interno, accesso al mercato e sussidi all’esportazione) si continuerà a lavorare, ma con il “forte impegno” che si metterà anche sugli altri capitoli in stallo, e che interessano ai paesi sviluppati, e cioè “accesso al mercato non agricolo, servizi, proprietà intellettuale, e regole”.
Le bozze di testo rimandate all’ulteriore negoziato ginevrino impegnano i Paesi sviluppati a eliminare le sovvenzioni all’esportazione entro il 2020, mentre la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo dovrebbero farlo tre anni dopo. Un’eccezione potrebbe essere fatta per i sussidi all’esportazione nel trasporto e la commercializzazione, che i Paesi in via di sviluppo potrebbero continuare fino alla fine del 2028. I Paesi meno avanzati (Pma) e in via di sviluppo importatori netti di prodotti alimentari avrebbero altri due anni per eliminare tali pagamenti. Sul cotone la bozza prevede la fine immediata delle sovvenzioni all’esportazione fornite dai Paesi sviluppati, e concede un anno in più ai Paesi in via di sviluppo per fare lo stesso. Si tratta, comunque, della tardiva applicazione di decisioni “politiche” già assunte alla ministeriale di Hong Kong, nel 2005.
Così la ministeriale di Nairobi si chiude con all’attivo soprattutto un accordo per l’eliminazione dei dazi per 201 prodotti dell’information technology, grazie all’impegno di 53 paesi che rappresentano il 90% del commercio di questi beni. Un accordo settoriale e plurilaterale, non multilaterale, seppur sotto l’egida del Wto, che permetterà di liberalizzare gli scambi di beni ad alto valore tecnologico per arrivare, secondo le stime, a coprire il 10% del commercio mondiale, per un valore annuale di oltre 1.300 miliardi di dollari Usa. “In pratica un volume di scambi più ampio di quello relativo ai prodotti dell’automotive – ha commentato il vice ministro per lo Sviluppo economico italiano, Carlo Calenda, vicepresidente di turno della ministeriale. “Si deve poi considerare che questo accordo darà alla Ue un vantaggio tariffario pari a 6,3 miliardi di euro”.
I quattro giorni di lavoro di Nairobi, al di là dell’indicazione generica di rilanciare il commercio mondiale, fotografano una Wto debole, incapace di dare la giusta spinta propulsiva agli accordi multilaterali e con gli Stati più forti interessati piuttosto a chiudere accordi bilaterali di libero scambio, che il nostro viceministro Calenda, nel suo commento apparso su un noto quotidiano nazionale, non a caso indica come “primo pilastro” di una “nuova architettura” della governance commercio globale.
Restano così in piedi le controversie sui sussidi all’agricoltura, le diverse concezioni sulla sicurezza alimentare e l’accesso al mercato dei paesi in via di sviluppo, così come resta fuori il tema della liberalizzazione dei servizi, tema che Unione Europea e Stati Uniti tentano di imporre direttamente al tavolo del Wto e, ancor di più, per aggirare la contrarietà della maggior parte dei 164 paesi membri, attraverso il proliferare dei trattati bilaterali o plurilaterali, come il Ceta e il Tpp, già siglati, e il Ttip e il Tisa, in corso di negoziato.
Due anni fa a Bali, la Conferenza ministeriale precedente aveva affidato ai Paesi membri un compito ambizioso, che tuttavia era sembrato ridare slancio al negoziato multilaterale: i Paesi avanzati avevano ottenuto un impegno dei Paesi emergenti, India e Cina in testa, a una profonda accelerazione della liberalizzazione delle operazioni doganali e di transito delle merci (il capitolo della Trade facilitation), impegnandosi in cambio a mettere fine all’annosa questione dei sussidi all’agricoltura, di cui gli Stati Uniti sono ancora tra i principali erogatori, e promettendo di trovare una soluzione permanente che concedesse ai Paesi con i più alti tassi di povertà e di insicurezza alimentare, in primo luogo l’India, capofila di una lunga lista di Paesi poveri e poverissimi (i cosiddetti Least development Countries o Ldc), di poter utilizzare gli stock alimentari pubblici per la distribuzione di cibo agli indigenti e altre misure di governo del prezzo agricolo nei momenti di forte volatilità dei mercati.
A Ginevra, però, da due anni a questa parte il negoziato si è arenato. Stati Uniti ed Europa, portavoce dei grandi esportatori dei Paesi avanzati, hanno messo sul tavolo altri temi che a Bali erano stati volutamente tenuti in sordina: la liberalizzazione dei servizi, l’inclusione degli appalti pubblici e degli investimenti tra i settori da negoziare, l’accelerazione del commercio dei beni e servizi ambientali dominato ancora dai Paesi ad alta tecnologia. Tutti argomenti, questi, al centro di molti degli accordi bilaterali e plurilaterali che Stati Uniti ed Europa stanno negoziando con altri Paesi membri, come la già siglata Trans Pacific Partnership (Tpp), il Tisa sui servizi, e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip) “e che per il principio Wto della Nazione più favorita – ha ricordato nella conferenza stampa di apertura, Robert Azevedo, segretario generale della Wto – si riflettono comunque nelle trattative in corso”.
La verità, come ha detto il ministro per il commercio australiano, Andrew Robb, è che è la stessa “Wto ad essere messa in discussione”. Ad appena vent’anni dalla sua nascita l’Organizzazione mondiale per il Commercio ha visto crescere i paesi che vi hanno aderito, per ultimo la Liberia e l’Afghanistan, festeggiati proprio a Nairobi come 163esimo e 164esimo paese partner, ma i paesi economicamente più forti ne contestano una governance “elefantiaca”, dove anche il più piccolo dei partner deve concordare con decisioni che si approvano per consenso.
Ancora una volta non è riuscito ad Usa e Ue di inserire nella Dichiarazione finale l’impegno dei Paesi membri ad aprire nuovi negoziati, respinti da anni come fuori mandato per l’organizzazione. Gli accordi bilaterali e plurilaterali come Tpp, Ttip, Tisa e Ceta, invece, sono stati citati in un paragrafo, in cui si dice, però, che i Paesi membri riaffermano il bisogno di assicurare che i Regional Trade Agreements (Rtas) rimangano complementari e non un sostituto per il sistema commerciale multilaterale”, impegnando il Committee on Regional Trade Agreements (Crta) a discutere le implicazioni sistemiche degli Rtas nel sistema commerciale multilaterale e le loro relazioni con le regole della Wto. A “vigilare” potrebbe essere il Transparency Mechanism, al momento non permanente, che potrebbe consolidarsi per verificare, oltre che il comportamento protezionistico o meno dei Paesi membri, anche l’impatto degli accordi bi e plurilaterali sulle regole commerciali vigenti.
Da Nairobi è emerso con chiarezza che Usa e Ue falliscono se vogliono imporre le proprie priorità commerciali sul resto del mondo, e che ciò che portano a casa è solo maggiore conflittualità e ulteriore instabilità. Ma la via degli accordi bilaterali che stanno di fatto privilegiando – al di là delle formali dichiarazioni sulla centralità del negoziato multilaterale, ancora una volta pomposamente rilanciate dalla Malstrom, come dallo stesso Calenda – non sembra portare molto più lontano, non solo per la difficoltà dei negoziati, ma per l’evidente (e riconosciuta) asimmetria dei risultati che rischia di creare più barriere di quante dichiari di eliminarne. Per non parlare della crescente opposizione dei lavoratori e dei cittadini a negoziati segreti che sempre più vogliono regolare (o deregolamentare) aspetti fondamentali della vita delle persone e della stessa democrazia istituzionale.
In questa ministeriale, la Commissario al commercio europea Cecilia Malmstrom rischia di essere ricordata solo per scherzarci su. Nella giornata della prima globale di Guerre Stellari, infatti, ha twittato sul suo profilo un selfie che la vede brandire una spada laser auto-augurandosi “che la forza sia con noi”, per il (lungo) rush finale della ministeriale. Al di là del cattivo gusto – e dell’ondata di repliche ironiche del popolo di twittatori - resta il fatto che l’Unione europea spinge ancora per l’espansione delle competenze dell’Organizzazione nonostante essa si dimostri ormai da anni in difficoltà anche con la ordinaria gestione negoziale, e nonostante i Membri della Wto li abbiano rimandati al mittente quasi 10 anni fa. Insomma, non si vuole prendere atto che la maggior parte dei paesi – e buona parte dell’opinione pubblica europea – respinge l’idea che siano gli accordi sul libero commercio, sulla garanzia dei profitti e degli investimenti a stabilire le regole del gioco democratico e la qualità dello sviluppo.
Leopoldo Tartaglia è della Fondazione Di Vittorio