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E’ in questi giorni in libreria il volume Contro l’ergastolo (curatori Stefano Anastasia e Franco Corleone), frutto della collaborazione tra Ediesse e Società della Ragione, organismo che ha come finalità lo studio e una diversa consapevolezza intorno ai temi della giustizia e del diritto penale minimo. Pubblichiamo di seguito il saggio di Adriano Sofri, che a partire dal titolo (“Io comincio a capire cosa è la detenzione”), ripercorre la lezione di Aldo Moro sul rapporto tra pena e reato e sulla crudeltà dell’ergastolo.
Quando pubblicai un libro su Aldo Moro, nel 1991 (ma l’avevo scritto molti anni prima), non potevo conoscere il testo delle Lezioni di Istituzioni di diritto e procedura penale tenute dal professor Moro nel 1976 nella facoltà romana di Scienze politiche, raccolte e curate da Francesco Tritto ed edite nel 2005. Se l’avessi conosciuto, in particolare la seconda sezione, intitolata alla “Funzione della pena”, ne avrei fatto gran conto per i paragrafi del libro dedicati al rapporto fra Moro e il carcere, alla luce dei 55 giorni di “prigione del popolo” (...). Al buio di quei 55 giorni – il mio libro si intitolava L’ombra di Moro. Ero stato colpito dalla frase, un semplice inciso in una lettera indirizzata a Cossiga: “io comincio a capire che cos’è la detenzione”. Moro la insinua in un brano sulla possibilità di uno scambio fra l’ostaggio inerme che lui è ora e qualche detenuto delle Brigate Rosse: “… il grado di pericolosità della situazione non si è d’altra parte accresciuto, trattandosi di persone provate da lunga detenzione, meritevoli di un qualche riconoscimento sul piano umano (io comincio a capire che cos’è la detenzione) e infine neutralizzati dal fatto di essere dislocati in territorio straniero …”.
Un inciso troppo sobrio, troppo fra parentesi per non far pensare. Moro tiene a svolgere la tesi che è stata sua, e lo ribadisce, ben prima della impensata reclusione in cui ora si trova: che la salvezza di vite minacciate giustifica e impone un prezzo provvisorio da parte della società e delle istituzioni. Gli preme serbare alla sua argomentazione un andamento lucido e obiettivo: non la sua angosciosa condizione,ma un interesse comune e razionalmente dimostrabile lo ispira, e i suoi interlocutori devono persuadersene. I suoi interlocutori, amici di partito e personali, che invece stanno decretando dettati dai sequestratori o dalla viltà i suoi messaggi. “Nella mia più sincera valutazione, e a prescindere dal mio caso, anche se doloroso, sono convinto che oggi esiste un interesse politico obiettivo, non di una sola parte, per praticare questa strada”. A prescindere dal mio caso, dice. Anche rivolgendosi a chi è stato finora suo amico o seguace o cliente, deve adesso sorvegliarsi, guardarsi, non tradirsi: non chiamare in causa la propria sofferenza (solo la concessione pudica dell’accenno, “anche se doloroso”), tenere a bada le proprie emozioni. C’è un intero mondo, appena fuori dalla sua segreta, pronto a espropriarlo delle sue parole e a leggervi la prova del suo cedimento fisico e morale a un dominio che lo spoglia di sé, a invalidarlo pubblicamente e privatamente.
Vorrebbe – chi non vorrebbe al suo posto? – dire l’offesa e la pena della propria condizione, ma deve reprimersi: censurarsi per non essere censurato dai suoi carcerieri di dentro, e per non essere interdetto da amici e colleghi di fuori. In questo sforzo di oggettività e distanza – un uomo rapito, umiliato, condannato a morte da un tribunale autonominato, spinto a “prescindere dal suo caso” – scivola tuttavia quella frase incidentale, io comincio a capire che cos’è la detenzione. Come inavvertitamente, in una fessura di distrazione attraverso cui “il suo caso” avverte della propria esistenza. O piuttosto avvertitamente, come se quel lapsus leggero e prosciugato fosse lasciato lì di proposito, e incaricasse l’interlocutore di estrarlo e maneggiarlo: un cenno soltanto, lo spiraglio in cui fissare lo sguardo, e figurarsi come Moro stia davvero nel fondo buio della sua ostentata obiettività. (Non è la sola volta dell’espressione “io comincio”, in quelle lettere: “comincio a capire che cos’è la detenzione”; “ho capito solo in questi giorni che vuol dire soffrire con Cristo”.) Eppure Moro aveva una fitta esperienza di visitatore di carceri.
Un brano della sua biografia pubblicata nel 1969, nove anni prima, da Corrado Pizzinelli (è Sciascia a citarlo nell’Affaire Moro) acquistava, riletto ora, il senso perturbante di un presagio. Pizzinelli scriveva del Moro ministro di Grazia e Giustizia nel 1955-57: “come Guardasigilli mette in eccezionale rilievo tutti i suoi difetti. È pignolo, minuzioso, lento e meticoloso fino all’eccesso …. Intanto a che cosa dedica la sua maggior attenzione? Sorpresa, alle carceri e ai carcerati, cui fa lunghe, lunghissime visite …. Le sue esplorazioni in questo sottofondo della vita sociale italiana sono continue e minuziose. Vien voglia di chiedere a uno psicanalista quali potrebbero essere le motivazioni segrete della curiosa propensione per le galere e i galeotti che ha l’uomo cui, non dimentichiamolo, piacciono tanto le cravatte e i loro nodi”. Più di vent’anni dopo, l’ex ministro della Giustizia, e minuzioso ispettore delle carceri e dei carcerati, si trova sanguinosamente imprigionato, e scrive: “Io comincio a capire che cos’è la detenzione”. Sarebbe bene, commentavo, che leggessero e rileggessero queste parole i tanti che parlano ex professo o en amateur dell’altrui galera.
In un’altra lettera, una delle più ondeggianti e demoralizzate, ma per questo più impressionante, Moro arriverà a invidiare e auspicare per sé la stessa prigionia che subiscono i detenuti brigatisti. “Ritengo invocare la umanitaria comprensione delle due Assemblee e dei loro presidenti … per una legge straordinaria e urgente del Parlamento, la quale mi conferisca lo status di detenuto in condizioni del tutto analoghe, anche come modalità di vita, a quelle proprie dei prigionieri politici delle Brigate Rosse …”. Un’invidia, un auspicio dell’ora d’aria! “In una prigione comune, per quanto severa, io avrei delle migliori possibilità ambientali, qualche informazione ed istruzione, assistenza farmaceutica e medica ed un contatto, almeno saltuario, con la famiglia”. Ecco l’invocazione: una prigione comune, per quanto severa. In quelle lezioni sulla funzione della pena, tenute solo due anni prima, Moro insiste sull’ancoraggio della pena, e del diritto in genere, all’idea della persona dotata della libertà, cioè della capacità di scegliere e di essere responsabile. Refutando una concezione neutrale, naturalistica o meccanica, del diritto, Moro parla del proprio tempo – siamo nel 1976 – come di “un’epoca in movimento verso grandi attuazioni di giustizia e di civiltà umana, un’epoca nella quale l’uomo è chiamato a dare prova di sé con le sue scelte coraggiose nel senso della giustizia, della libertà e della dignità umana”.
Anche il reato, dice, è un atto di libertà, benché sia l’atto di libertà che conduce a una scelta negativa. Dunque la pena dev’essere personale, e legale – non dettata dall’arbitrio di chi giudica, ma dall’universalità della legge – e proporzionata. E la Costituzione stabilisce che la pena non possa mai consistere in trattamenti crudeli e disumani. “Vuol dire – spiega – trattamenti, vuol dire interventi, vuol dire atti di incidenza del potere pubblico sulla persona, che vadano al di là della necessità di limitare la libertà – infliggendo con ciò una sofferenza importante e sufficiente – che vadano a toccare la libertà umana”. La pena “è privazione della libertà, ma è soltanto privazione della libertà, non più di questo: è soltanto privazione della libertà”. Di qui l’inaccettabilità della pena di morte: “come si potrebbe ricondurre la pena capitale nell’ambito di interventi che non siano crudeli e disumani …? Capisco bene – aggiunge Moro, e viene in mente il vecchio e sconvolto Ugo La Malfa che nel giorno del suo rapimento si alzerà alla Camera a rivendicare la pena di morte per gli attentatori – che vi possono essere dei momenti di accesa passione popolare di fronte ad alcuni fatti gravi, gravissimi, che si verificano, di fronte all’evidente sprezzo della vita altrui che il delinquente manifesta. Ma il potere pubblico deve essere ben controllato, per non farsi condurre ad immaginare che la pena sia considerata come una vendetta …. La vendetta è automatica, la vendetta è smodata, la vendetta è disumana; la pena, invece, è misurata, è umana nella sua manifestazione, nella sua finalità ….Questo dell’assassinio legale è una vergogna inimmaginabile in un regime di democrazia sociale e politica …”. Avrete letto con interesse ma senza troppa sorpresa queste definizioni e considerazioni.
Meno aspettato, e comunque meno conosciuto e commentato è il capitolo che segue nella lezione di Moro, dedicato alla “pena dell’ergastolo”. “Un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale che istantaneamente, puntualmente, elimina dal consorzio sociale la figura del reo, ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Continueremo subito nella citazione: salvo il breve intervallo sufficiente a osservare che questa convinzione, della crudeltà e disumanità dell’ergastolo equivalenti a quelle della pena capitale – se non peggiori, come vedremo fra poco – contrasta radicalmente con tutte le forme di ripudio della pena di morte che vogliono compensarlo con l’inflessibilità della reclusione a vita – argomento corrente soprattutto negli Stati Uniti.
Torniamo alle parole del professor Moro: “ed è, appunto, in corso nel nostro ordinamento – che conosce ancora la pena dell’ergastolo, anche se non conosce più la pena di morte – una riforma che tende a sostituire a questo fatto agghiacciante della pena perpetua – (‘non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!’) – una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione,ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano”.
Qualunque cambiamento nella vita di una persona, compreso il pentimento vero – “com’è pur possibile” – prosegue Moro, è irrilevante se la pena esaurisce la vita di quella persona. “Ci si può, anzi, domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con il sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa … umanamente non accettabile”. Immagino che siate tutti, lettrici e lettori, impressionati dal Moro che enuncia questi concetti. Perfino eccessivi, in un certo senso, in questo finale argomentare – “forse” – la crudeltà maggiore dell’ergastolo rispetto alla pena di morte: convinzione non di rado pronunciata da ergastolani e simbolicamente efficace e significativa. Purché non si dimentichino le obiezioni dai suoi due versanti. Che se si chieda ai condannati a morte di scegliere fra l’esecuzione e la pena perpetua, sarà una minoranza a scegliere l’esecuzione. E che agli ergastolani che preferiscano la morte a quella loro vita dovrà restare pur sempre la scelta di togliersela, la vita.
Ciascuno può misurare quanta strada sia stata fatta da allora, da quel 1976, a oggi, fine di decennio del nuovo secolo e millennio: all’indietro. Proclama retorico sempre più pigro di una minoranza politica, il ripudio dell’ergastolo è affidato pressoché solo al grido di certi fondi di cella, e al coraggio di lotte isolatissime. Non allegherò commenti di troppo facile effetto sulla contraddizione fra le lezioni di Moro e il modo della sua cattura privata e della sua privata esecuzione. Finirò invece copiando le righe finali della lezione di cui abbiamo fin qui parlato: “Allora ci vediamo per la lezione di venerdì. Bisogna che mi diate i nomi perché ho dimenticato il libretto sul quale, poi, registrerò le presenze”.