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È morto ieri all'età di 88 anni il sociologo del lavoro Luciano Gallino. La redazione di Rassegna lo ricorda con commozione. Negli ultimi decenni di trasformazione e disgregazione del mondo del lavoro, Gallino è stato per noi una bussola, una mente cui ci rivolgevamo sempre per orientarci e capire, grazie alla sua lucidità preziosa, i cambiamenti che intervenivano sul piano legislativo e le loro ripercussioni nell'organizzazione del lavoro e nelle vite stesse di lavoratrici e lavoratori.
La scomparsa di Gallino è ricordata oggi sulle pagine di tutti i giornali italiani. "Lascia tanta amarezza in chi, semplice lavoratore, studioso di problemi sociali, politico sensibile alle trasformazioni produttive, sindacalista impegnato o anche imprenditore avveduto, lo ha seguito nel corso degli anni – scrive Bruno Ugolini su ‘L’Unità’ –. Viene a mancare una voce importante, capace di allargare la conoscenza su fenomeni e attese, troppo spesso male interpretate: sempre dalla parte di chi ‘presta’ e non solo ‘vende’ la propria forza lavoro. Con l’impegno di chi intende far riconoscere a questo ‘prestatore’ d’opera un ruolo non servile. Senza indulgere in inutili populismi, ma dimostrando come la stessa impresa, per una vera efficienza utile al Paese, abbia bisogno di rapporti di lavoro moderni. Basta rileggere i titoli dei suoi innumerevoli volumi per ripercorrerne il pensiero. Come ‘Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione’, dato alle stampe nel 1998, quando si affacciavano nel mercato del lavoro le prime ondate di lavoro atipici e precari; oppure, via via, ’Il costo umano della flessibilità’ e ‘L’ impresa irresponsabile’ nel 2005; ‘Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità’ nel 2007; ‘La lotta di classe dopo la lotta di classe’ nel 2012. Fino a ‘Vite rinviate. Lo scandalo del lavoro precario’ nel 2014. Del resto, la sua cultura derivava non solo da studi accademici. Prima di diventare professore emerito all’università di Torino (dal 1965 al 2002), aveva affrontato un’interessante esperienza di vita all’ufficio studi dell’Olivetti di Ivrea, una fucina, allora, per un possibile futuro lavorativo basato su un patto perlomeno di rispetto tra capitale e lavoro. ‘Una vita di fabbrica’, che lo avvicinava alle problematiche reali e lo aiutava nella sua continua acquisizione di capacità e riconoscimenti, fino a diventare presidente del consiglio italiano delle Scienze sociali (1979-1988), e poi dell’associazione italiana di Sociologia (1987-1992)”.
Il lavoro è stato sempre al centro del suo impegno civile, prima ancora che accademico e scientifico, fino agli ultimi anni
Il sociologo torinese è ricordato su ‘La Stampa’ da Gianni Vattimo: “Il lavoro è stato sempre al centro del suo impegno civile, prima ancora che accademico e scientifico, fino agli ultimi anni – osserva il filosofo –. Tra la superficialità di tanta retorica delle ‘relazioni umane’ e l’ideologismo di molti approcci esclusivamente politici al tema, Gallino riuscì a mantenere una posizione originalmente equilibrata, per cui resta ancora oggi un grande maestro sia della sociologia più legata agli studi sul campo sia di quella più teoricamente impegnata. Pur non essendo mai stato neutrale, aveva assunto, da ultimo, una posizione molto critica nei confronti dell’economia neoliberista predominante, sostenendo, tra l’altro, che un fattore determinante della crisi del capitalismo esplosa nel 2008 è stato l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia: il vertiginoso circolare dei capitali che prevale sull’economia reale, sulla produzione e sul concreto lavoro umano, con catastrofiche conseguenze per il tessuto sociale delle nostre società. È come se, fino all’ultimo, avesse voluto rimanere fedele alle sue origini di intellettuale di fabbrica e di testimone partecipe delle trasformazioni del lavoro”.
Alle narrazioni preferiva i numeri, l’analisi scientifica dei dati, e ciò gli ha reso la vita non semplicissima
“Di Gallino mancherà la testimonianza rigorosa e appassionata, la serietà d’analisi, che consentiva a tutti coloro che si occupa della società italiana di avere uno sguardo non preconfezionato sui mutamenti dell’ultimo mezzo secolo. Soprattutto mancherà il suo essere punto di riferimento, quasi una cartina di tornasole del mutare delle posizioni altrui: Il suo mite radicalismo d’indagine aveva finito per farlo passare, negli ultimi anni, come un intellettuale no global, mentre era semplicemente il coerente sostenitore di un riformismo rigoroso e non cortigiano: dunque, un riformismo autentico”. Così Paolo Griseri su ‘La Repubblica’, che aggiunge: “Non amava le mode intellettuali. Alle narrazioni preferiva i numeri, l’analisi scientifica dei dati, e ciò gli ha reso la vita non semplicissima. Non aveva nemmeno paura di schierarsi. L’adesione alla lista Tsipras, alle elezioni europee, è la dimostrazione che non era un intellettuale timoroso di sporcarsi le mani. Invece, era convinto della necessità di un cambio radicale di sistema, non solo economico, ma anche culturale. E per arrivarci, non vedeva altra strada se non quella dello studio dei meccanismi sociali. Non amava scorciatoie populiste: ‘Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi ed effetti, ogni speranza di realizzare una società migliore dell’attuale può essere abbandonata’, aveva scritto. Il suo piano per creare lavoro, negli anni difficili dello spread alle stelle, è stata una delle rare proposte concrete. Quell’idea di prendersi cura dell’Italia, utilizzare gli investimenti pubblici per creare occupazione, ristrutturare scuole e riparare strade, è forse il vero testamento del sociologo, che sapeva guardare oltre lo stato di cose esistente”.
“Di Luciano Gallino (...) conservo due bei ricordi personali - così Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera - . Il primo risale agli anni Sessanta. Gallino face va parte del gruppo di intellettuali che aiutavano Adriano Olivetti a impostare nuove e lungimiranti politiche di gestione del lavoro e del territorio. A Ivrea, dove abitavo, il nome di Gallino ricorreva spesso, soprattutto in occasione di nuove iniziative culturali o sociali che l’azienda apriva alle famiglie dei dipendenti e all’intera città. Il sociologo lasciò la Olivetti nel 1971, ma rimase profondamente segnato da quella esperienza. La sociologia industriale e del lavoro rimase uno dei suoi principali interessi. E ancora nel 2001, in un a lunga intervista con Paolo Ceri intitolata L’impresa responsabile (Edizioni di Comunità), Gallino tornò a riflettere sull’ingegner Adriano e sulle sue straordinarie realizzazioni. L’Olivetti degli anni Cinquanta fu la prima grande «impresa responsabile», caratterizzata da una strategia produttiva molto efficiente, ma anche capace di migliorare costantemente le condizioni di lavoro. Purtroppo, l’etica dell’impresa responsabile è oggi quasi scomparsa. Nel nuovo capitalismo neoliberista, sosteneva Gallino, l’imperativo è «fare buoni affari e basta» (la nota raccomandazione di Milton Friedman), massimizzare il valore per gli azionisti senza preoccuparsi di altro. Il mio secondo ricordo riguarda il Gallino professore. Verso la metà degli anni Settanta, all’Università di Torino m’iscrissi al suo corso di Sociologia. Mi trovai di fronte un docente austero, con uno stile molto tradizionale che strideva con il clima lassista e a volte sguaiato d i «Palazzo Nuovo» . Nelle sue lezioni non si stava seduti sui banchi a fumare e discutere di cospirazioni della borghesia . S'imparavano i classici, si leggeva Karl Marx, ma anche Max Weber e Talcott Parsons. Si guardavano i numeri, commentando le tabelle di Paolo Sylos Labini sulle classi sociali in Italia. Si facevan o cose serie, insomma. Sotto la guida di un vero Maestro".