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Il 4 gennaio 1947, a Sciacca – provincia di Agrigento – la mafia uccide davanti alla porta della sua abitazione Accursio Miraglia, segretario della locale Camera del lavoro e dirigente comunista. Il sindacalista – oltre che direttore dell’Ospedale civico cittadino, proprietario di una piccola industria del pesce, amministratore di una fornace per la produzione di laterizi e direttore del Teatro Rossi – era entrato nel mirino del braccio armato dei grandi latifondisti per le sue battaglie per l’assegnazione a cooperative di contadini delle terre incolte da scorporare dalle grandi proprietà terriere. “È il sesto segretario di Camere del lavoro che, nel giro di pochi mesi, è stato ucciso in terra di Sicilia – scriverà l’Unità il giorno successivo –. Profonda è l’indignazione che quest’ultimo crimine politico ha suscitato tra i lavoratori siciliani e particolarmente tra i contadini poveri della zona, che hanno perduto in Curzio Miraglia uno strenuo assertore dei loro diritti”.
La segreteria regionale della Cgil, riunita immediatamente a Palermo, vota all’unanimità un ordine del giorno in cui si chiede al ministro degli Interni provvedimenti immediati e d’emergenza; i rappresentanti del Pci, del Psi, del Pri e della Dc, richiedendo un’inchiesta parlamentare e votano un ordine del giorno di protesta per la carenza delle forze di polizia di fronte al ripetersi di simili delitti, mente il presidente del Consiglio ad interim, Pietro Nenni, invia alla Camera del lavoro di Sciacca il seguente telegramma: “Esprimo lavoratori Sciacca mio profondo cordoglio per assassinio segretario Camera lavoro Miraglia. Ho dato disposizioni perché tutto sia messo in opera per arrestare autori istigatori delitto. Violenza reazionaria non arresterà opera giustizia perseguita dai lavoratori”.
A Sciacca arrivano tutti i dirigenti sindacali e politici della sinistra, a cominciare dal segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi e dal sottosegretario alla Giustizia Giuseppe Montalbano. La bara con il corpo di Miraglia rimane scoperta per tre giorni in ospedale e per tre giorni in Camera del lavoro. L’11 gennaio si svolgono i funerali civili, cui partecipa un numero altissimo di persone. Dalla Camera del lavoro al cimitero la bara è portata a spalla dai contadini.
Dalle colonne de La Voce della Sicilia dirà quattro mesi più tardi, il giorno dopo la strage di Portella, proprio Girolamo Li Causi: “Tutto il mondo civile fremerà d’orrore nell’apprendere la ferocia fredda, disumana, con la quale al Piano della Ginestra, luogo caro ed amato dai contadini di Piana dei Greci, di San Giuseppe Jato e di San Cipirrello per avervi ascoltato fin dal 1894 la calda, umana, pacata parola dell’apostolo del socialismo siciliano Nicola Barbato, sono stati abbattuti al suolo bimbi, donne, vecchi, fiorenti giovani, da parte di sicari armati di mitragliatrici e moschetti che vomitarono fuoco micidiale per ben venti minuti sulla folla silenziosa e festosa raccolta attorno al primo oratore che celebrava la festa del lavoro…”.
La commemorazione a Sciacca
I lavoratori siciliani, le masse contadine dell’isola, “tutti i cittadini onesti – sempre nelle parole del dirigente comunista – balzeranno in piedi per imporre che la belva scatenata, i grossi agrari, la mafia che ha lottato con tutti i mezzi per il trionfo della monarchia e del qualunquismo monarchico, che ha ancora le mani grondanti di sangue di Accursio Miraglia e di Nicolò Azoti e di altri generosi figli del popolo, ora che ha mostrato apertamente la sua grinta mostruosa sia distrutta con la stessa implacabilità con cui ci si difende dalle belve scatenate. Sconfitta sul terreno della democrazia, della civile competizione, la casta dominante della nostra isola ha minuziosamente, freddamente premeditato il piano di provocazione e di aggressione contro le forze del lavoro, contro le sane e vive forze che hanno voluto con le elezioni del 20 aprile manifestare il loro profondo e deciso desiderio di rinnovamento”.
Ma la sfida della belva scatenata, ancora a giudizio di Li Causi, era stata lanciata anche contro lo Stato italiano, contro la nuova repubblica democratica dell’Italia risorta: “La più genuina e belluina espressione di come le forze del blocco agrario e della sua forza armata, la mafia, intendono l’autonomia siciliana”. “Guai al nuovo Stato repubblicano e democratico – è la conclusione di Li Causi –, guai alle forze che dovranno assicurare la rinascita del nostro paese, se non rinnoveranno l’apparato della polizia; della pubblica amministrazione, della magistratura per garantire civiltà e libertà alla nostra isola. Le forze del Blocco del popolo, e con esse tutte le forze sinceramente democratiche e amanti del civile progresso della Sicilia, sono già mobilitate e sono decise, insieme con le forze della civiltà e del progresso del mondo e dell’Italia tutta, a imporre un energico, decisivo intervento del governo per schiacciare la testa ai criminali del blocco agrario, per eliminare dall’isola la belva scatenata che ha nome mafia”.
Ilaria Romeo è responsabile Archivio storico Cgil nazionale