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(Proponiamo una rilettura dal nostro archivio. Articolo pubblicato il 29.3.2018)
Il recente accordo tra le parti sociali, che rinnova le regole del gioco in materia di relazioni industriali, va sicuramente salutato in modo positivo, per due ragioni almeno. La prima si riferisce al ruolo stesso che i due attori collettivi rivendicano in vista del futuro per se stessi. La seconda per il carattere innovativo che rivestono alcuni dei contenuti introdotti in questo testo, qualche volta ribaditi in passato da una delle due parti, ma mai congiuntamente in modo così netto.
Il primo aspetto si riferisce chiaramente all’ambizione che enunciano tanto le confederazioni sindacali che la Confindustria di andare oltre la fase della cosiddetta disintermediazione, che aveva segnato larga parte della scorsa legislatura. A partire dal 2011, e dunque già dal governo Monti, le due parti avevano dovuto faticosamente legittimare la loro funzione – in precedenza non contestata – di soggetti che contribuivano all’assunzione di decisioni su alcune politiche pubbliche.
Negli anni successivi era stato teorizzato che la non inclusione degli attori collettivi poteva avvantaggiare qualità, efficacia e consenso nelle decisioni pubbliche. Sembra di poter dire che, nonostante ulteriori spinte verso la democrazia “immediata”, sia nella sostanza tramontata nell’insieme degli attori politici l’idea di un sorta di autosufficienza completa. Si riaprono dunque spazi – da verificare nelle forme e negli oggetti – per un ruolo delle grandi organizzazioni da giocare nella sfera pubblica e non ridotto alla mera attività di pressione.
E non casualmente le due parti hanno sottoscritto questo accordo a pochi giorni dal voto. Lanciando un messaggio alle forze politiche e ai futuri governi e mostrando di essere capaci di sciogliere da sole i nodi principali relativi al sistema delle relazioni industriali. Ma con questo testo dobbiamo registrare l’accettazione implicita di un passaggio di fase con cui è diventato necessario fare pienamente i conti. Negli ultimi anni, e non solo in Italia, è cresciuto l’interventismo pubblico legislativo su diverse materie di lavoro e di relazioni industriali: qualche volta con intenti di cooperazione, ma spesso di scavalcamento nei confronti degli attori sociali.
Le due parti sembrano considerare l’inevitabilità di questo ruolo legislativo più esteso, il quale per alcuni assetti, come il nostro, segna almeno in parte una rilevante novità. Ma invece di contestarlo, esse ritengono di poterlo almeno in certa misura volgere a loro favore. Dunque, non rivendicando una specie di sovranità assoluta in materia di contrattazione e dintorni (che sarebbe stato un ritorno al passato), ma sottolineando la necessità di un sovranità per così dire relativa, e basata sul raccordo su lineamenti di fondo tra attori politici e attori sociali. Vedremo se poi questo programma di riforme, anche di legge, di alcuni nodi delle relazioni industriali potrà decollare, e se lo farà davvero in modo più cooperativo degli ultimi anni.
Per quel che attiene al secondo aspetto – l’evoluzione e l’innovazione nei contenuti – sono diverse le angolature da sottolineare. Alcune hanno un carattere più simbolico e di lungo periodo, altre attengono invece alla ridefinizione delle regole del gioco. È questo il compito principale di accordi di questo genere, che sono considerati come accordi “fondamentali”, in grado cioè di definire un assetto, i suoi principi ispiratori e i suoi criteri d’attuazione.
Quanto all’altra dimensione – quella simbolica –, essa viene riassunta nell’importante premessa del testo. Per la prima volta e in modo così impegnativo, come una sorta di obbligazione reciproca, i due grandi soggetti di rappresentanza indicano la necessità per il nostro sistema produttivo di riposizionarsi più in alto, dal punto di vista della complessità tecnologica e organizzativa, dentro la competizione internazionale. In altri termini, viene prefigurato come un disegno di sistema il fatto che le nostre imprese si attrezzino a essere all’altezza della “via alta” alla competizione, fondata sulla qualità del lavoro e dei processi produttivi, mettendo fra parentesi una competitività legata solo al contenimento dei costi.
Nel corso degli ultimi anni, nell’ambito delle relazioni industriali sono state focalizzate tre arene principali d’intervento: la contrattazione e la sua struttura, la rappresentanza e la partecipazione (cui era dedicato il documento del 2016 delle tre confederazioni sindacali). Questo accordo le riattualizza precisandole, e di fatto ruota intorno a loro, anche se non mancano altri oggetti d’interesse, come il welfare contrattuale o la formazione. In relazione alla struttura della contrattazione, viene riproposto con qualche aggiornamento l’impianto classico del nostro assetto, che è fondato – in modo peculiare nel confronto internazionale – sul ruolo di due livelli negoziali, la cui importanza è divenuta nel corso del tempo di rango equivalente.
In campo resta come garanzia universale, sul piano non solo salariale, il contratto nazionale di categoria, mentre è cresciuta nel tempo la rilevanza delle aspettative verso la contrattazione decentrata, che se ben sviluppata potrebbe aiutare in modo adeguato l’innalzamento della produttività e della competitività. Ma in attesa che questo ruolo del decentramento contrattuale, spesso auspicato, ma con effetti pratici e di copertura inferiori alle necessità, decolli davvero, la crescita della retribuzione è affidata a tutti e due i livelli attraverso modalità e combinazioni di funzioni da costruire e implementare nelle diverse situazioni settoriali.
Non meno importante il tentativo di individuare nuovi percorsi distributivi, andando oltre la logica dell’ancoraggio all’andamento dell’inflazione, fino a ieri dominante. Da questo punto di vista, l’accordo si pone come un ombrello generale che legittima le diverse esperienze e soluzioni in materia salariale, già delineate nel corso della già avviata contrattazione nazionale da parte delle diverse categorie. Se dunque in materia di contrattazione si coglie un’evoluzione incrementale in corso, sugli altri due versanti sopra richiamati si intravede la possibilità di un salto.
Quello più maturo per una robusta innovazione riguarda la misurazione della rappresentatività. A tal proposito, ci troviamo di fronte a due importanti acquisizioni, che vanno decisamente oltre la tradizione precedente. La prima consiste nel fatto che entrambe le parti per la prima volta e in modo del tutto convergente richiedano una legislazione di sostegno per dare vita pratica effettiva alle regole di certificazione elettorale e associativa già da tempo individuate. Un passaggio nient’affatto scontato se si rammenta a questo riguardo la tradizionale ostilità confindustriale e la freddezza astensionista su cui era attestata la Cisl. La seconda consiste invece nell’inserimento nel perimetro della misurazione del peso anche dell’intero campo delle associazioni datoriali: un aspetto divenuto importante ai fini dello sfoltimento del numero abnorme di contratti di comodo lievitati negli anni.
L’altra arena, spesso desiderata e finalmente con contorni più nitidi, è quella della partecipazione: anch’essa segnata da visioni non coincidenti, sia tra le parti che dentro gli stessi sindacati. Qui viene tracciato un percorso di piena emersione di questo tema, fondato sullo sviluppo di due gambe prioritarie. Una è data dal rafforzamento ed estensione della partecipazione ai cambiamenti organizzativi, vitali per innalzare la qualità del nostro apparato produttivo. L’altra, da meglio configurare, riguarda la “partecipazione strategica”, quel tipo di partecipazione dei lavoratori che concorre alla costruzione di indirizzi condivisi delle imprese.
Quindi, l’accordo delinea bene una cornice valida per il futuro delle relazioni industriali. Certo la strada tracciata non sarà lineare, né priva di ostacoli. Tra le chiavi di lettura dei prossimi anni, ai fini della misurazione degli impatti possibili, pare utile indicarne un paio. Una si riferisce all’incertezza intorno al ruolo che potrà giocare l’attore pubblico governo: da cui dipendono varie delicate sistemazioni legislative, come quelle in materia di rappresentatività. L’incertezza, accresciuta dall’esito elettorale recente, forse va tradotta in un mutamento delle lenti tradizionalmente adottate per mettere a fuoco il rapporto tra istituzioni e parti sociali.
Un’altra questione da richiamare è quella dell’impegno congiunto delle parti intorno al salto di qualità del nostro apparato produttivo. Per ora si tratta di un catalogo condivisibile di buone intenzioni: si tratta di capire come esso possa tradursi in una vera scommessa pratica. E dunque per questa via supportare un patto per l’innovazione, che è quello di cui il Paese necessita.
Mimmo Carrieri è docente di Sociologia economica presso la Sapienza, Università di Roma