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Eccolo, il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La giornata delle “scarpe rosse”. Istituita dalle Nazioni Unite nel 1999, negli ultimi anni è diventata un appuntamento di grande rilievo, nel cui ambito si moltiplicano iniziative e dibattiti. Le giornate internazionali “dedicate a” nascondono sempre l’insidia della trasformazione in stanche ricorrenze, con annesso corollario di appuntamenti istituzionali, articoletti di giornale, brevi spot nei tg. Con il giorno seguente in cui tutto torna come prima. Il 2016 si sta caratterizzando, però, come un anno diverso, l’anno in cui le donne si stanno ribellando in massa contro la strage e il muro di ipocrisia e omertà che la nasconde.
In Messico migliaia di donne hanno gridato “ci vogliamo tutte vive”. In Argentina si sono mobilitate in una giornata di sciopero per la sedicenne Lucia Perez, torturata e assassinata. Le manifestazioni delle “donne in nero” in Polonia hanno bloccato ulteriori odiose restrizioni proposte dal governo alla già limitata legge sull’aborto, in spregio alla salute e alla vita stessa delle donne. In Turchia, oggi e non qualche secolo fa, il presidente Recep Tayyip Erdogan propone di legalizzare con il matrimonio riparatore gli abusi sessuali contro le minorenni. L’Europa tace, ma le donne di quel Paese non resteranno in silenzio. Gocce che fanno traboccare un vaso colmo da tempo.
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#NonUnaDiMeno è l’hashtag lanciato contro la violenza maschile sulle donne, che non si limita alla rete, ma si concretizza in un appello e in una grande manifestazione nazionale che si svolgerà sabato 26 novembre a Roma, promossa dall’Udi, da Dire-Rete nazionale dei centri antiviolenza, dalla Rete Io Decido (gruppi del femminismo romano). Un universo di donne variegato ed eterogeneo, come lo era quello che nel Novecento conquistò il suffragio, il divorzio, la legge 194 e un nuovo diritto di famiglia.
Le donne della Cgil hanno spontaneamente aderito in massa alla manifestazione, Susanna Camusso è tra le firmatarie dell’appello, in tutta Italia si stanno mobilitando i coordinamenti donne delle Camere del lavoro, le Leghe Spi, le categorie. Perché questa è sempre stata una battaglia del sindacato. “La violenza sulle donne è una sconfitta per tutti”, sta scritto su uno striscione appeso all’entrata della sede nazionale della confederazione, in corso d’Italia. È vero: il femminicidio è una tragedia sociale che investe non solo le vittime della violenza, ma anche i carnefici.
Larghissima parte delle violenze avviene in famiglia, per mano di ex partner delle vittime, sbrigativamente definiti “mostri”, e certamente lo sono per l’efferatezza di molti delitti. Tra questi “mostri” vanno tuttavia inclusi non solo uomini dal temperamento violento, ma anche stimati professionisti, "bravi ragazzi", molti uomini definiti normali fino al giorno del delitto. La normalità, lungi dall’essere un’attenuante, copre fragilità, inadeguatezza, incapacità di gestire la frustrazione di un abbandono, tanto da esplodere in violenza istintiva o premeditata verso colei che ha osato decidere della propria vita. È la banalità del male che produce i tanti numerosi “mostri”, non la sua eccezionalità, come nel giudizio su Eichmann di Hannah Arendt.
Se alla violenza dei femminicidi associamo l’indifferenza di chi assiste e non interviene, l’inerzia dei governi, il pregiudizio verso le vittime duro a morire, abbiamo chiaro lo stato di immiserimento sociale in cui versano ormai le nostre comunità. Noi sindacaliste e sindacalisti della Cgil dobbiamo sforzarci di fare qualcosa di più della doverosa solidarietà alle vittime e alle loro famiglie: è questo il senso della nostra partecipazione alla manifestazione e al percorso che ne seguirà. Forse, un femminismo del terzo millennio.
Per noi donne è finalmente giunto il momento di tornare a mobilitarci su battaglie antiche e mai vinte veramente, per le donne e gli uomini di lavorare insieme per ricostruire quella solidarietà collettiva che può cambiare le teste degli uomini, oltre che delle donne.