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Nell’estate del 1992 l’Italia precipita nel pieno di una crisi drammatica. Dopo la firma del Trattato di Maastricht, che imponeva al paese una dura politica di sacrifici per centrare il traguardo europeo, una serie di avvenimenti scuote alle fondamenta il sistema politico-istituzionale: l’avvio delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli, i risultati delle elezioni politiche di aprile, l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino da parte della mafia. Tra l’estate del 1992 e l’estate del 1993, in piena emergenza economica e politica, il sindacato dà un contributo decisivo per l’uscita del paese dalla crisi, collaborando con i Governi Amato e Ciampi, con i quali firmerà due accordi fondamentali.
Il primo, siglato il 31 luglio 1992, poneva fine al meccanismo della scala mobile e prevedeva misure urgenti in tema di occupazione; con il secondo, firmato il 23 luglio 1993 dopo la ratifica dei lavoratori (prima della firma Cgil, Cisl, Uil rendono note le cifre della consultazione, inedita, voluta fra i lavoratori: alle assemblee hanno partecipato in 3.650.000, di questi hanno votato 1.327.290; i sì sono stati il 67,05%, i no il 26,98%, gli astenuti il 5,98%), si stabilivano per la prima volta nella storia italiana regole certe nel sistema di relazioni industriali: l’intesa prevedeva, infatti, l’introduzione della politica dei redditi e della concertazione, nonché la riforma del sistema contrattuale, articolato su due livelli (nazionale e decentrato), di cui si fissavano tempi e materie. Segretario generale della Cgil nel luglio 1992 è Bruno Trentin.
Bruno si piega con molta inquietudine a firmare l’accordo tra sindacati e governo del 31 luglio 1992 di cui non è per niente convinto (alla riapertura delle fabbriche, l’accordo raccoglierà nelle piazze reazioni durissime, coi famosi bulloni a Trentin, a Firenze, da parte di tanti lavoratori e militanti sindacali, specie dei Cobas o autonomi, ma anche della Cgil). Perché lo fa? Scrive lui stesso: “Mi sono trovato assediato. La divisione dei sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico”. Il senso di responsabilità e il timore della fine di ogni unità sindacale lo spinge a siglare l’accordo lasciando però liberi gli organismi dirigenti della Cgil di convalidare o meno l’intesa. Si dimetterà da segretario lo stesso 31 luglio, poi a settembre le sue dimissioni verranno respinte dal Direttivo confederale, provocando - scrive sempre lui stesso - “un inferno dentro di me”.
“Tutto si è compiuto in questo giorno e nella notte - scriveva Bruno il 31 luglio 1992 sul suo diario - Giovedì, per ventiquattro ore un negoziato estenuante e insidioso con il Governo che fa praticamente da portavoce e da mediatore della Confindustria. Assalito a colpi di insulti da Abete e dai suoi tirapiedi, Amato si aggrappa disperatamente a loro per trovare una via d’uscita che salvi la sua immagine e il negoziato nel quale si è avventurato, fidandosi dell’arrendevolezza del sindacato e del corrispondente bisogno d’immagine dei burocrati della Cisl e della Uil. Il fronte sindacale si sgretola rapidamente. (...) Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di Governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico. Salvare la Cgil e le possibilità future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. E spero ancora, per le ragioni politiche che mi hanno indotto a quel gesto che lo faccia e tragga da questo la forza per ribaltare a settembre le regole del gioco fuori da ogni ricatto. Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto”.
“Caro Pietro - scriveva Trentin ad Ingrao nel settembre 1993, due mesi dopo la firma del Protocollo del 23 luglio precedente, a maggioranza interpretato come una rivincita sul 1992 - ho voluto prendere tempo per poterti rispondere con un minimo di serenità. Parlo di quella che ho perso dal 31 luglio 1992, che ha rappresentato - alla distanza lo posso ben dire - la prova più terribile della mia vita. Ti dico subito che quando cogli il carattere in parte formalistico del mio rilievo alle tue dichiarazioni sull’accordo ‘firmato’, fai un’osservazione fondata. Più che la volontà contano i fatti. E il fatto è che per ‘abitudine’, per disattenzione, per indifferenza anche, non solo i mass media, ma molti lavoratori hanno dato per fatto l’accordo, dopo la conclusione delle trattative il 3 luglio del 1993. E sulla consultazione molti si sono comportati come si sono comportati in passato di fronte a contratti firmati e poi sottoposti a referendum … Eppure rivendico l’importanza di una battaglia fatta per non identificare la fase conclusiva di un negoziato … con un accordo definitivo, da ratificare eventualmente con un referendum. Non è stato facile respingere il ricatto di una conclusione dell’accordo prima del referendum del 18 aprile e delle dimissioni del governo Amato. Non è stato facile non solo rispettare l’impegno della Cgil ma imporre alle altre organizzazioni sindacali - per la prima volta in questo dopoguerra se non sbaglio - di non siglare il verbale della trattativa come era consuetudine, per lasciare interamente liberi attivisti e lavoratori nella scelta che dovevano compiere.
"Ritengo un errore - prosegue Trentin - liquidare in modo caricaturale una consultazione che è stata certamente piena di limiti organizzativi e soprattutto politici, ma che esprime, malgrado tutto, un impegno di partecipazione democratica, fondata sul volontariato, che nessun altro soggetto politico o sociale avrebbe potuto realizzare, non solo in Italia ma anche in Europa. Allora è una esperienza sulla quale riflettere per trarre tutti gli insegnamenti, ivi compresa la profonda crisi di sfiducia nei confronti dei partiti e dei sindacati, e per correggere i limiti e gli errori (…) Detto questo, vorrei proprio ricominciare a discutere con te dei contenuti e dei valori di una strategia della solidarietà capace di fronteggiare la disgregazione corporativa, cavalcata fino a ieri dall’estremismo di sinistra (…) ed egemonizzata oggi, con straordinaria efficacia, dalla Lega (…) Penso ancora di aver compiuto delle scelte anche molto difficili - come quelle del 31 luglio - che però si sono rivelate, quanto meno, le più favorevoli ad una ripresa del conflitto sociale, con una unità d’azione che ne costituisce - oggi più che mai - una condizione essenziale. Ma ogni critica e ogni accusa (non sono mancate le più infami, se le giudico ‘razionalmente’) hanno lasciato in me - puoi stare sicuro - delle tracce indelebili. Anche perché non mi sento di continuare in un impegno per quanto ‘ragionevole’ lo ritengo, pagando ogni giorno il peggio di una rottura con persone, amici in carne ed ossa, che hanno fatto parte degli anni migliori della mia vita. E ti assicuro che la mia convinzione sulle scelte da me compiute non mi ripaga di questo. Lascerò questo lavoro. Ma vorrei almeno che con un amico come te riprendesse il dialogo, persino uno scambio di informazioni, una verifica comune sui fatti e non solo sulle apparenze e le intuizioni (…) Penso più di prima che l’intervento del ‘soggetto’, di nuove soggettività collegate a nuovi bisogni e nuovi valori, ma anche ad un irriducibile bisogno di autonomia e di libertà contro le vecchie e nuove forme di autoritarismo, sia il vero elemento motore del conflitto sociale - di classe e non solo - e la garanzia insostituibile di un progresso della democrazia verso una progressiva (anche se mai praticamente raggiungibile) ‘liberazione del lavoro’ (…) Questa mi pare la prova più ardua ma ineludibile con la quale dobbiamo tutti misurarci, se non vogliamo che l’insorgere dei nuovi soggetti non degeneri nella frantumazione e nella degenerazione corporativa o ‘autistica’ di questi nuovi protagonismi e se non vogliamo che essi finiscano per introdurre non una necessaria dinamica della democrazia, ma un’involuzione autoritaria fondata su un consenso di massa (...)”. Parole attuali sulle quali riflettere.